Si parla spesso del ricorso alla scienza, alle tecnologie più avanzate, per risolvere alcune questioni relative al mondo dell’arte. Una di queste occasioni fu, nel 2018 a Pisa, il Festival internazionale della robotica. In quell’occasione vi fu l’interessante intervento di Anna Pelagotti, scienziata e restauratrice che 15 anni fa aveva fondato Art-Test, un’azienda di diagnostica per l’arte. La dottoressa Pelagotti detiene numerosi brevetti internazionali anche per l’analisi scientifica dell’arte e da alcuni anni lavora a Bruxelles, distaccata dal Cnr, come Program Expert per l’Unione Europea.
In particolare, durante il suo contributo di cinque anni fa a Pisa, Pelagotti ricordò che l’idea di studiare scientificamente un’opera parte praticamente era iniziata con Galileo e si era evoluta con il sapere, con nuovi concetti e soprattutto con nuovi metodi e strumenti. Nei secoli la ricerca scientifica aveva riguardato tre macro-aree relative ai metodi di esecuzione, allo stato di conservazione e infine all’autenticazione e attribuzione. Ed è su quest’ultimo punto che, nel tempo, non si son fatti dei sostanziali passi in avanti. In parole povere la scienza – in particolare l’intelligenza artificiale di cui tanto si parla – può anche rivelarsi utile e tantissime occasioni, ma ancora non sta fornendo strumenti e procedure tali da poter ridurre di molto la discussione sull’attribuzione di un’opera d’arte.
La scienziata ricordò come, nel 1968, lo storico dell’arte Enrico Castelnuovo sottolineasse come siano davvero ben poche le opere autenticate da testi d’archivio o dalla firma dell’artista; per cui non esistendo un’indicazione antica per molte opere, gran parte di quelle che possiamo ammirare nei musei o nelle collezioni private sono opere in larga parte attribuite, con i risultati dell’attribuzione che variano a seconda di chi la effettua su tale artista e sul suo stile. Secondo il docente e storico dell’arte Giovanni Previtali “il principio su cui si basa l’attribuzione è molto semplice: e cioè da un lato sulla capacità della mente umana di riconoscere ciò che già conosce, dall’altro sull’altra caratteristica dell’uomo di lasciar sempre una impronta personale su ciò che fa, sia che lo voglia, sia che (come nella storia avviene assai spesso) cerchi di ottenere proprio l’opposto”.
Già nel 2018 Anna Pelagotti parlò dell’intelligenza artificiale come di un “nuovo strumento” per le attribuzioni delle opere d’arte, ma aggiunse una serie di importanti osservazioni: che la mente umana ha la naturale capacità di comprendere il contesto; che un osservatore riesce subito ad individuare se un dettaglio di un dipinto possa derivare da un restauro; che un algoritmo di riconoscimento automatico tenderà a considerare la parte restaurata come parte integrante del dipinto e si ostinerà a trovare un “modello” che comprenda questa parte “diversa”; che infine ci sarà bisogno di una supervisione. Insomma, già nel 2018 era chiaro che, almeno nel mondo dell’arte, le macchine hanno dei limiti, probabilmente di difficile superamento. A distanza di cinque anni abbiamo chiesto alla dottoressa Pelagotti di fare il punto sulla situazione, anche alla luce dell’accresciuta attenzione sui possibili utilizzi dell’intelligenza artificiale.
Con l’irrompere di ChatGPT e di altri software che utilizzano l’intelligenza artificiale, e che hanno dimostrato capacità oggettivamente impressionanti, è lecito domandarsi se questi potranno sostituire gli storici dell’arte nelle attribuzioni. Nonostante io sia una scienziata e creda che la scienza sia fondamentale nelle autenticazioni e nelle attribuzioni, credo che non si potrà arrivare ad un software che sia in grado di attribuire un dipinto. Non è la prima volta che si parla di attribuzione “automatica”, e infatti ci sono dei tentativi fatti in questo senso già diversi decenni fa. Se parliamo solo di teoria sono secoli che ci proviamo. Si è cercato in pratica di oggettivare le osservazioni da cui traggono le loro conclusioni i “conoscitori”. Tuttavia quello che ancora manca e che mancherà sempre, almeno per alcuni artisti, è un numero di dipinti sufficiente per avere un numero minimo di dati stabili, incontrovertibili e significativi che possano “allenare” l’intelligenza artificiale a riconoscere tutto quello che serve. Questo è un problema anche per i conoscitori del resto. Pochissime opere sono firmate o conosciute come di mano di un certo artista in maniera incontrovertibile. La maggior parte sono attribuite e le attribuzioni sono ancora spesso soggette ad essere ridiscusse e cambiate. Inoltre a tutt’oggi, di fatto non è disponibile una procedura sicura e condivisa, che permetta di dire quali sono gli elementi che identifichino la produzione di un artista e solo di quello lì.
I cultori del technologically correct rimarranno assolutamente delusi. Quali sono i reali problemi per l’intelligenza artificiale, per le attribuzioni, può esser chiusa in un magazzino, e buio bene?
Per quanto spesso ritenuto marginale dalla scienza, il mondo dell’arte pone delle questioni ancora più complesse di campi come a esempio la medicina. Infatti le forme e i metodi delle opere d’arte variano più che le forme degli organi degli esseri umani. Poi ci sono tutte le variazioni nelle opere d’arte dovute alla loro storia, ai danni e alle modifiche dovute agli anni e alla cura degli uomini. Nonostante questo, l’intelligenza artificiale potrà sostenere o smentire le attribuzioni. Soprattutto quando i dati visivi siano integrati con quelli scaturiti dalle indagini scientifiche, che aggiungono anche informazioni sui materiali utilizzati e sulle parti nascoste alla vista. L’intelligenza artificiale non potrà che essere uno strumento importante per ottenere una maggiore oggettività nel giudizio. Potremmo sicuramente aggiungere tasselli importanti e arrivare a identificare copie e falsi più facilmente. E questo andrà a tutto vantaggio del mondo dell’arte, oggi troppo spesso funestato da scandali e da attribuzioni interessate, fatte spesso nessun ausilio della scienza. Quindi ben venga l’intelligenza artificiale come un ulteriore aiuto dove noi, per nostri limiti umani, non arriviamo. Ma purtroppo nel campo delle attribuzioni delle opere d’arte le cosiddette “allucinazioni” di ChatGPT, ovvero conclusioni totalmente prive di aderenza alla realtà, non potrebbero che essere la norma.
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Nella foto in alto – La restauratrice Elizabeth Wicks al lavoro sull’Allegoria dell’Inclinazione, opera del 1616 di Artemisia Gentileschi (foto LaPresse di archivio)