Ad appena due giorni dall’uscita della serie tv, la collaboratrice di giustizia di Rosarno Giuseppina Pesce prende le distanze e denuncia la messa in onda di The Good Mothers, trasmessa sul canale Disney+. Stando al legale della pentita di ‘Ndrangheta, l’avvocato Michela Scafetta, nessuno prima ha chiesto e acquisito il consenso della collaboratrice di giustizia. “A ciò si aggiunga – è scritto in una nota dell’avvocato – che la signora Pesce si dissocia dalla narrazione della vicenda, in particolar modo per quel che attiene al contenuto dei primi 3 episodi, ove viene riprodotto un personaggio che nulla ha a che vedere con la storia reale della protagonista e con il suo vissuto all’interno della sua famiglia di origine. Peraltro, il padre della signora Pesce viene descritto come un orco e ciò non corrisponde al vero, essendo lo stesso stato sempre amorevole con la figlia e figura di riferimento per la stessa. Atteso il contenuto della serie, la mia assistita ha già diffidato le case di produzione e l’emittente dalla messa in onda della serie tv ed in ogni caso si riserva di agire nelle opportune sedi per il ristoro dei diritti ingiustamente violati”.
Se questo è il comunicato stampa, sui social l’avvocato Scafetta rincara la dose: “Mi trovo a difendere i diritti di Giuseppina Pesce, collaboratrice di giustizia, unica rimasta in vita, che da anni si nasconde per sfuggire a chi vorrebbe vederla morta. La difendo non dalla sua famiglia d’origine ma da Disney + che ha messo in onda, senza alcuna autorizzazione, The Good Mothers che ha raccontato una storia che in parte distorce la realtà ma che soprattutto, in maniera grave, mette a rischio la vita della donna e dei suoi figli”.
Ma chi è Giuseppina Pesce? Appartenente alla cosca Pesce di Rosarno, una delle più temute famiglie di ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, è stata arrestata nell’aprile 2010 su richiesta della Dda di Reggio Calabria nell’ambito maxi-operazione All inside, coordinata prima dal sostituto procuratore Roberto Di Palma e poi dal pm Alessandra Cerreti. Detenuta nel carcere di San Vittore, a Milano, sei mesi più tardi Giuseppina Pesce è crollata. Il 14 ottobre 2010 ha iniziato a collaborare con i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria all’epoca guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone.
Sposata con tre figli, la pentita ha confessato ai pm di aver svolto il delicato ruolo di collegamento tra il padre detenuto, il boss Salvatore Pesce, il fratello Francesco, e gli affiliati ai quali dava indicazioni sulle estorsioni e sulle modalità che la cosca adottava per nascondere il patrimonio acquisito con le attività illecite. Con le sue dichiarazioni, presto la donna ha fatto scattare l’operazione All inside 2: ha ricostruito, infatti, l’organigramma della famiglia d’origine indicando nel cugino, all’epoca latitante, Francesco Pesce detto Testuni (e figlio del boss Nino Pesce) il più pericoloso tra i rampolli del clan.
Pochi mesi più tardi, il 2 aprile 2011, quando era già ai domiciliari in una località protetta, ha scritto al Tribunale manifestando la volontà di interrompere la collaborazione e sostenendo di essere stata indotta a rendere dichiarazioni false dagli organi inquirenti. Pochi giorni dopo, inoltre, Giuseppina Pesce si è rifiutata di sottoscrivere il verbale illustrativo della sua collaborazione avvalendosi della facoltà di non rispondere alla domanda del pm che le chiedeva se quanto dichiarato nei precedenti interrogatori corrispondesse o meno alla verità.
Chiesta la revoca del programma di protezione, la donna è rimasta ai domiciliari per poi essere arrestata il 10 giugno 2011 per evasione. Meno di un mese, però, ha ripreso a collaborare con la giustizia e al pm Cerreti ha spiegato che quella lettera, con cui aveva ritrattato, l’ha scritta di suo pugno per paura. Se non l’avesse fatto, c’è scritto nel verbale del 2 agosto 2011, “sarei stata esposta, come ripeto, al fatto che… insomma, che me l’avrebbero fatta pagare… questa lettera è stata, tipo fatta per… per pensare… insomma, per farmi da scudo per la gente, insomma, per i miei famigliari che… cioè che sono stati”. Quella lettera è stata pubblicata da Calabria Ora, il giornale locale all’epoca diretto da Piero Sansonetti che polemizzò con l’allora procuratore Pignatone al quale il giornalista ha chiesto spiegazioni sull’operato del suo ufficio, lanciando il sospetto che i pm di Reggio Calabria avessero utilizzato i figli di Giuseppina Pesce per esercitare “una pressione psicologica” sulla stessa e per indurla “a parlare”.
Così non è stato e lo ha spiegato la stessa collaboratrice nell’interrogatorio reso il 21 maggio 2012 davanti al Tribunale di Palmi. Collegata dall’aula bunker di Roma, infatti, Giuseppina Pesce confermò che la copia di quella lettera è stata inviata ad un giornale: “Adesso non ricordo a quale, – sono le sue parole – però è stata inviata pure ai giornali perché dicevano che questa cosa doveva venir fuori, doveva essere resa pubblica. Tutti dovevano sapere che io non ero una collaboratrice. Cioè quella sarebbe stata la prova che io non stavo collaborando più. Prima di quella lettera c’è stata una pressione che mi facevano continuamente di scrivere questa lettera, di scriverla… Mio cognato Palaia Gianluca, mia cognata Palaia Angela… dicevano che fino a che io non avessi scritto quella lettera… dicevano che i miei familiari non erano tranquilli, che dopo quelle lettere avrebbero capito che io effettivamente facevo sul serio, che volevo tornare indietro”.
In realtà la storia giudiziaria di Giuseppina Pesce dimostra che, dopo quel tentativo di ritrattare, non è mai tornata indietro e anzi le sue dichiarazioni si sono rivelate importanti per le indagini della Dda di Reggio Calabria sulla cosca Pesce di Rosarno, la cittadina della Piana di Gioia Tauro dove in quel periodo aveva deciso di collaborare con la giustizia pure Maria Concetta Cacciola. Le due donne avevano la stessa età, si conoscevano sin da bambine, da quando avevano 8-9 anni, e avevano alle spalle un vissuto simile: erano diventate amiche, frequentavano gli stessi posti ed entrambe avevano i mariti in carcere.
Dopo aver saltato il fosso, Cacciola si è allontanata dalla località protetta ed era ritornata a Rosarno dove la sua famiglia è organica della cosca Bellocco. Voleva rivedere i figli. Aveva paura per loro che, ancora, si trovavano con i nonni nella cittadina della Piana di Gioia Tauro. Tornata a Rosarno, il 20 agosto 2011 è morta bevendo acido muriatico. “Una ragazza solare”. È il ricordo che Giuseppina Pesce ha dell’amica Maria Concetta Cacciola. Due storie parallele che dimostrano come la ‘ndrangheta non perdona. Nemmeno le donne.