Inizia sotto il segno della tensione diplomatica la campagna elettorale di Recep Tayyip Erdogan in vista delle elezioni politiche previste a maggio in Turchia. Come se il suo sì all’ingresso della Finlandia nella Nato dovesse in qualche modo essere riequilibrato da una postura più scorbutica sul piano internazionale. É quello che il presidente turco ha fatto ieri, quando si è lamentato con l’ambasciatore statunitense, Jeffrey Flake, dopo che il diplomatico aveva incontrato il leader dell’opposizione Kemal Kilicdaroglu.
“Questo non va bene, cerca di usare un po’ il cervello. Sei un ambasciatore. Il tuo contatto qui è il presidente”, ha detto Erdogan. Lo stesso Flake, stizzito, ha annullato la sua partecipazione alla cena organizzata dal partito di Erdoğan per gli ambasciatori in Turchia. Sebbene l’ambasciata avesse annunciato che l’agenda del diplomatico non era compatibile con l’invito, è evidente che le frizioni tra i due Paesi hanno influito.
La reazione Usa non si è fatta attendere: al di là della dichiarazione ufficiale (“Gli ambasciatori degli Stati Uniti all’estero si incontrano regolarmente con membri del governo e dei media, vari partiti politici, società civile e colleghi diplomatici nell’ambito dei loro doveri diplomatici relativi alla comprensione degli sviluppi nei loro Paesi di missione. Lo stesso vale per l’ambasciatore Flake in Turchia”), spicca il disappunto della Casa Bianca che da un lato sta trattando la vendita di F-16 alla Turchia (su cui il Campidoglio è spaccato a metà) e dall’altro prova a gestire geopoliticamente i riflessi dello status di Erdogan in terreni connessi, come la Siria, il Mar Nero e l’Ucraina.
Sul punto si registra l’intenzione dei funzionari turchi di fare un passo indietro dagli originari piani di acquisto dei caccia, come ammesso dal consigliere per la sicurezza e la politica estera del governo, Cagri Erhan, anche per non essere oggetto di critiche sia dalle opposizioni che dai cittadini alle prese con l’inflazione e con la ricostruzione post sisma: sconveniente investire 20 miliardi di dollari in armi in questo contesto. Ma il ministro della Difesa Hulusi Akar ha affermato tre settimane fa che “l’F-16 non è l’unica opzione”, aggiungendo che “ci aspettiamo buon senso”.
All’ombra della diatriba, dunque, ci potrebbe essere anche la concorrenza asiatica, che vorrebbe vendere ad Ankara il caccia sponsorizzato da Xi Jinping, il J-10 Vigorous Dragon. A favore dell’opzione cinese c’è la variabile Pakistan, che ha acquistato gli ultimi droni turchi, con la possibilità di partecipare al progetto di caccia di quinta generazione dell’aeronautica militare turca TF-X.
Nel mezzo il peso specifico di Kilicdaroglu, l’avversario scelto dalle opposizioni per provare a contrastare un potere, quello di Erdogan e del suo partito, che dura da 20 anni. Il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) attualmente al governo, pur se in testa nei sondaggi, ha mostrato nell’ultimo biennio un trend in calo: colpa della crisi della lira turca, deprezzata in maniera netta dopo il Covid e soprattutto dopo le mosse spregiudicate della Banca Centrale turca che, per decisione di Erdogan, ha visto il consiglio di amministrazione cambiare più volte in soli 24 mesi.