Sono oltre 100 le manifestazioni per la pace organizzate in tutta la Germania durante il fine settimana di Pasqua: le prime già giovedì Santo a Erfurt, Friburgo, Chemnitz, Gronau. Quest’ultima, dopo un minuto di silenzio per le vittime della guerra, si è diretta verso un impianto per l’arricchimento dell’uranio e ne ha chiesto la chiusura. “Stiamo manifestando contro la corsa internazionale agli armamenti -ha spiegato un portavoce dei manifestanti- e le armi nucleari, contro qualsiasi uso dell’energia nucleare”.

Per il movimento pacifista tedesco i raduni di Pasqua sono una tradizione che dura da decenni: prima contro la Nato e la Guerra Fredda, poi per chiedere il ritiro da Afghanistan, Iraq e lo stop alle varie ‘missioni di pace’. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina i pacifisti tedeschi vengono, nella più gentile delle ipotesi, definiti “ingenui antimilitaristi” o più sovente “filo putiniani”.

Con il passare dei mesi diverse voci della società civile hanno proposto Berlino come promotrice di un cessate il fuoco. Uno di questi appelli, promosso da una parlamentare e un’attivista, ha raccolto 600mila firme in pochi giorni. Già dalla scorsa primavera diversi gruppi religiosi, culturali e scientifici hanno chiesto di non consegnare altre armi a Kiev, non per una resa ucraina, ma per facilitare i negoziati di pace. Promotore dell’ultima lettera aperta è lo storico Peter Brandt, figlio dell’iconico cancelliere tedesco Willy Brandt. Sotto l’appello dello storico si trovano le firme del mondo sindacale e di esponenti di primo piano del Partito Socialdemocratico.

L’eredità delle due guerre mondiali, la vergogna per le atrocità dei crimini commessi, la successiva occupazione e divisione del Paese hanno instaurato nei tedeschi la convinzione che del pacifismo si debba andare fieri. La contraddizione è però ben visibile. Sul territorio tedesco sono ospitate enormi basi militari statunitensi che garantiscono la protezione e un ombrello nucleare. Dal 1945 Berlino mantenne la sua neutralità fino alle guerre nei Balcani. Poi c’è stato l’Afghanistan e le missioni dei Caschi Blu. La Bundeswehr, esercito tedesco, si guadagnò il soprannome di broken army, esercito a pezzi. Armi vecchie, mezzi inutilizzabili, mancano persino le divise.

I governi si sono succeduti, ma nessuno ha investito per ristrutturare le forze armate. La guerra in Ucraina ha cambiato, se non tutto, molto. Pochi giorni dopo l’inizio dell’invasione il cancelliere Olaf Scholz ha creato un fondo da 100 miliardi di euro per la Difesa. Nonostante gli annunci, in più di un anno, quasi nulla è stato fatto e quei fondi sono ancora intatti.

La società civile continua a frenare. I sondaggi rivelano che i tedeschi hanno paura che la guerra si espanda. All’interno della Chiesa Protestante c’è una forte spinta per una soluzione diplomatica: “Saremo più fantasiosi – ha detto in un’intervista il vescovo Friedrich Kramer – che continuare semplicemente a usare le armi per alimentare una guerra che costerà migliaia, centinaia di migliaia di vite”. Il vescovo ha ricevuto dure critiche: “Possa non trovarsi mai in una situazione – si legge su Frankfurter Allgemeine – in cui la compiacente inazione degli altri potrebbe essere la sua condanna a morte”.

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