“La verità non si può permettere di essere tollerante”. Questa celebre frase del padre della psicanalisi Sigmund Freud racconta come poche altre cosa rappresenti oggi la strage Moby Prince, a trentadue anni da quella notte drammatica tra il 10 e l’11 aprile 1991. I familiari delle centoquaranta vittime si riuniranno infatti anche quest’anno a Livorno, la città della strage, in un 10 aprile caduto di Pasquetta. E lo faranno proprio per chiedere allo Stato quella verità che in tre decadi di storia hanno imparato a riconoscere “non tollerante”. Una verità che, lei sola, potrebbe indurli a ripiegare per sempre quel lungo striscione con cui ricordano la loro storia tra palazzetti e piazze “Moby Prince: 140 morti nessun colpevole”. Sono forti di un’unione mai come oggi solida e sono riusciti a ritrovare la capacità di auto-organizzarsi nonostante la perdita di fatto delle due colonne portanti che per quasi trent’anni avevano retto la lotta civile per verità e giustizia su quanto accaduto: Loris Rispoli, colpito in modo irreversibile da una serie di arresti cardiaci nel febbraio 2021, e Angelo Chessa, deceduto per un cancro vissuto per otto anni nel più stretto e intimo riserbo.
Negli ultimi dieci anni i familiari delle vittime Moby Prince hanno saputo ottenere dallo Stato porzioni importanti di quella verità non tollerante, in modo quasi impronosticabile dopo l’archiviazione del 2010 del Tribunale di Livorno. Con determinazione e quella dignità civile profonda che ha da sempre segnato la loro lotta, hanno potuto vedere al lavoro due Commissioni d’inchiesta parlamentare – e una terza pare ai blocchi di partenza entro l’anno – e hanno saputo impegnate Direzione Distrettuale Antimafia presso la Procura di Firenze e Procura di Livorno in due difficili quanto ermetiche (pochissimo è trapelato a mezzo stampa e arrivato alle loro orecchie) inchieste penali per strage su quanto accaduto ai loro 140 cari. Centoquaranta persone che hanno appreso solo nel 2018, tramite la prima Commissione d’inchiesta del Senato, trovarono la morte dopo una lunga straziante e purtroppo vana attesa di quel soccorso promesso dalla legge italiana e internazionale e mai arrivato, dopo la misteriosa collisione davanti al Porto di Livorno tra il traghetto dell’armatore Vincenzo Onorato in cui si erano imbarcati pochi minuti prima e la petroliera statale Agip Abruzzo.
Questa è forse la porzione più dolorosa di quella “verità non tollerante” emersa negli ultimi dieci anni sulla strage Moby Prince. Una porzione che insieme ad altre hanno composto un racconto opposto alla verità di comodo cristallizzata nell’inchiesta sommaria di chi doveva gestire quel soccorso in prima istanza, la Capitaneria di Porto, e poi dall’accordo tra le compagnie armatrici e i loro assicuratori firmato due mesi dopo la strage. Una verità di comodo purtroppo certificata per due decadi dal Tribunale di Livorno.
Mancano però ancora all’appello di questa verità ricostruita i passaggi decisivi di quanto avvenuto. Passaggi capaci di connotare definitivamente questo evento storico come una strage in senso penale – quindi un evento voluto da qualcuno, tramite esecutori identificati, per un movente determinato – o una tragedia frutto di una sequenza meramente casuale di errori madornali compiuti da una pluralità di soggetti coinvolti.
L’ultima Commissione d’inchiesta della Camera ha concluso i suoi lavori teorizzando lo scenario di una collisione tra traghetto e petroliera frutto di una scelta volontaria del comando del Moby Prince per evitare una precedente collisione con una terza nave ancora da identificare. Questa teoria nasce principalmente da uno studio probabilistico elaborato da un’elite ingegneristica italiana, il Cetena, secondo il quale il comando del traghetto avrebbe tenuto fino a 600 metri circa dalla petroliera una rotta non di collisione per poi compiere una virata volontaria verso quest’ultima. Questa virata, secondo la Commissione d’inchiesta, avrebbe l’unica spiegazione di una manovra di emergenza per evitare una collisione con un natante. Praticamente Moby Prince avrebbe evitato di collidere contro un natante non identificato per finire contro l’Agip Abruzzo e questo anche a causa del fatto che la petroliera era da qualche minuto in black out. In metafora grossolanamente automobilistica, il Moby Prince, suv, per non scontrarsi con un’auto o un motorino comparso dal nulla sulla sua rotta, sarebbe finito contro un tir parcheggiato a fari spenti lì vicino. Il tema della virata volontaria a sinistra da parte del traghetto è una novità. Mai prima era emersa come scenario plausibile e merita sicuramente un approfondimento. Ma lascia molti punti interrogativi, su tutti come scoprire chi è il terzo natante e perché mai prima è emersa prova evidente della sua esistenza.
In ogni caso l’incidente tra Moby Prince e Agip Abruzzo non ha fatto morti sul colpo. Ed è ormai chiaro a tutti che una concausa rilevante della fine drammatica di una larga maggioranza delle centoquaranta vittime sia l’averle lasciate a respirare per ore e ore i fumi di un incendio non domato, quindi il mancato soccorso da parte delle autorità pubbliche: Capitaneria di Porto e, sopra questa, Marina Militare nella figura di Maridipart La Spezia. E qui arriva il punto spartiacque per capire se ci troviamo di fronte ad una strage o ad una tragedia frutto di errori madornali e a tratti incomprensibili.
I familiari delle vittime sono infatti molto determinati nel dichiarare pubblicamente dei propri cari “li hanno lasciati morire”. Quindi lo spartiacque: qualcuno ha scelto di lasciar morire centoquaranta persone perché temeva che potessero testimoniare qualcosa di indicibile riguardante la dinamica della collisione oppure qualcuno ha semplicemente omesso di soccorrerli per un errore di valutazione?
Il primo scenario, la scelta, non può essersi fermata all’attesa di un risultato drammatico e tragico quanto atteso. Se qualcuno quella notte, dopo la collisione tra Moby Prince e Agip Abruzzo, avesse realmente voluto la morte di centoquaranta persone, non ha alcuna logica ipotizzare che si sarebbe fermato ad attendere un esito non scontato, come il caso del povero Antonio Rodi racconta. E lì sta l’ipotesi stragista. L’ipotesi secondo la quale dopo la collisione qualcuno abbia agito dolosamente, quindi volontariamente, per contribuire alla morte delle 140 persone presenti a bordo del Moby Prince, allo scopo di tacitarne l’eventuale testimonianza su quanto accaduto prima. Complesso e inquietante. Come potrebbe oggi la magistratura accertare un fatto del genere? Servirebbero testimonianze, certe. Rapporti, documenti. E finora l’unico che va in quella direzione è il documento chiave dell’inchiesta penale presso la Procura di Livorno: il documento del Sismi desecretato dove l’incidente Moby Prince è collocato in un diagramma di flusso tra Iraq Italia e Somalia, associato alla dicitura “Rete di traffici illegali di scorie, armi e rifiuti tossici”. Ma a quanto noto manca ad oggi persino l’identificazione di chi scrisse quel rapporto e quindi su quali elementi si basò per stilare quel rapporto.
Se lo scenario della strage di Stato sembra incredibile, il secondo scenario, la sequenza di errori madornali, sembra il più implausibile. E’ possibile che per mero errore, negligenza, sbadataggine la Capitaneria di Porto prima e la Marina Militare poi non abbiano saputo, nell’ordine: individuare il secondo natante coinvolto nella collisione per 85 minuti, una volta trovato casualmente non abbiano rivolto a questo il soccorso necessario per la semplice erronea deduzione del comandante della Capitaneria di Porto Sergio Albanese – “il fatto che fossero tutti morti era una deduzione logica” dichiarò in Commissione d’inchiesta il 7 giugno 2016) -, e nessuno dei tre elicotteri militari che volteggiarono la mattina dell’11 aprile sopra il corpo vivo seppur incapacitato di Antonio Rodi agì per il motivo per cui si era liberato in volo a spese dei contribuenti ovvero soccorrere chi era soccorribile e lasciò quell’uomo ardere in favore di telecamere nelle due ore successive?
Dopo trentadue anni lo Stato può e deve arrivare alla verità. Nella consapevolezza che possa essere, seguendo Freud, “non tollerante”. E per qualcuno inevitabilmente intollerabile. Anche se viviamo nel paese che tutto alla fine tollera tramite l’antica medicina dell’oblio.