Società

Torino, sono tornato alla Falchera per parlare in una scuola. E ho capito che il mondo è già cambiato

Quartiere Falchera di Torino, quando la periferia non è neanche più tale, circondato com’è dagli svincoli della tangenziale per Milano e della Torino-Aosta, a sud dalla ferrovia, alta velocità compresa. Un quartiere dove è più facile arrivare coi mezzi pubblici che in auto: il tram 4, una specie di metropolitana di superficie, fa capolinea e attraversa tutta Torino passando anche dal centro cittadino. Era un’area agricola all’estremo nord di Torino, lungo la strada che collegava la città con il Canavese, diventata insediamento residenziale in due fasi distinte, la prima negli anni ’50, INA-Casa, la seconda negli anni ’70, case di edilizia popolare, allora GESCAL oggi ATC. Un esperimento urbanistico, analogo a quelli che hanno dotato le grandi città di invenzioni urbanistiche ed architettoniche che miravano a cambiare la qualità del vivere del proletariato, come il Pilastro a Bologna o Le Vele a Scampia.

La Falchera è un quartiere ben fornito di servizi – ha perfino una fermata ferroviaria sulla TOMI, tantissimo verde, case a 3-4 piani in paramano nella parte “vecchia”, in prefabbricato nella parte “nuova”, con l’aggiunta di 16 torri da 10 piani, quelle che segnano il panorama dall’autostrada. è quartiere dove non passi per andare da qualche altra parte, è inizio e fine. Le vie portano nomi di alberi con pochissime eccezioni; una è la piazza Miccichè, dedicata al militante di Lotta Continua ucciso il 16 aprile del 1975 da una guardia durante l’occupazione delle case allora in costruzione nella zona nuova. A oltre 50 anni dalla loro progettazione e costruzione, la lezione della storia è che le barriere fisiche isolano e ghettizzano a prescindere. E poi che l’edilizia popolare, se mai un qualche governo un giorno tornerà ad occuparsene, va sviluppata in interventi più contenuti, diffusi e in aree prive di barriere. Infine che la varietà della popolazione – di reddito, occupazione, provenienza, condizione famigliare – contribuisce e stemperare i conflitti e a trasformare le differenze in opportunità. Questo per quanto riguarda lo spazio urbano.

La mia ultima volta alla Falchera risale a qualche giorno dopo la morte di Tonino, dunque a 47 anni fa, un’eternità. Eccomi qualche giorno fa a presentare ad allievi e docenti dell’IC “Leonardo da Vinci” un’attività didattica proposta dalla Fondazione Giuseppe Ferrero a cui la scuola ha aderito. Fa parte di un progetto più ampio che si chiama S.O.S. (Sostegno Orizzontale Studenti), diffuso in molte scuole secondarie del torinese, che finanzia l’attività di peer education, ragazzi delle classi superiori che fanno il doposcuola e da tutor ad allievi in difficoltà, impegnando i pomeriggi a scuola. Quest’anno al progetto la Fondazione ha aggiunto “CONT/CAST”, classi e gruppi che lavorano alla realizzazione di contenuti che saranno disponibili sulle principali piattaforme: storie, sunti scolastici, approfondimenti di temi di attualità e così via. L’adesione al concorso prevede la partecipazione dei gruppi e delle classi interessate a due incontri, il primo per l’impostazione del lavoro, il secondo per la finitura dei prodotti elaborati dai ragazzi.

Arrivo a scuola per l’incontro con gli allievi di tre classi in una giornata di sole (aiuta!): quartiere ordinato, giochi integri, alberi curati, erba tagliata e pochissima spazzatura in giro. Molti anziani, i primi assegnatari delle case popolari sopravvissuti, a spasso o a fare la spesa al centro commerciale. La scuola è un edificio degli anni ’70: cemento armato, ampi spazi, all’interno curati e ben tenuti. Bidelle sorridenti e accoglienti anche verso i ragazzi che vanno a chiedere loro di tutto. Aspettando di essere accolto, comincio a leggere la bacheca della scuola. Mi imbatto nell’elenco degli allievi ammessi alla classe prima dell’articolazione musicale: 25 nomi, quattro italiani, tutti gli altri stranieri, uno dal nome così lungo che la segreteria ha dovuto rimpicciolire il carattere per farlo stare su una riga sola. Non faccio in tempo a finire la ricerca dell’”indovina da dove viene?” che vengo raggiunto a un ragazzino dodicenne (non gli ho chiesto l’origine della famiglia) con un microfono in mano, che mi ha invitato a seguirlo nel salone dove intanto stavano arrivando le classi coinvolte, circa 50 allievi con i loro insegnanti.

Un campione esauriente delle varietà del mondo: tutti i colori e tutte le sfumature, fanciulle col velo e senza, ragazzi vestiti alla moda tamarra, altri in modo ordinario, ricci bruni, alti bassi, magri, grassi, calmi, irrequieti, interessati e con lo scazzo dipinto sul volto. Sorridenti o meno, tutti accompagnati da insegnanti attenti. Una platea commovente ha ascoltato le mie chiacchiere e recepito le poche istruzioni per partecipare al concorso.

Poi spazio alle domande, la parola a loro. Che l’hanno presa in italiano, non quello delle caricature alla bingo bongo, ma un italiano declinato nell’inflessione tipica dei torinesi passati dal dialetto alla lingua in una generazione. Quello che si fa caricatura negli infiniti neh? che condiscono le performances degli imitatori della sabaudità. Effetto straniante perfino per uno abituato a tutto, come credevo di essere: questi non sono stranieri a cui bisogna “riconoscere” la cittadinanza il prima possibile, sono proprio italiani, anzi torinesi. Solo che loro la cittadinanza, salvo rarissime eccezioni dovute alla casualità del momento in cui genitori o nonni sono arrivati qua, non ce l’hanno. Quindi ci tocca continuare a chiamarli “stranieri” quando non lo sono, tenerli a bagnomaria insieme alle loro famiglie, pronti a essere usati dall’agitatore/trice del momento per smuovere gli intestini di un pezzo di Italia stremato dall’ignoranza e dalla paura.

La seconda lezione è che il mondo è già cambiato, ciò che ancora stenta a prenderne atto è la rappresentazione che ne dà il mondo della politica, quello della cultura e dell’informazione. Questo per quanto riguarda lo spazio umano.

Un giro nella scuola della Falchera, del Pilastro, di Scampia e di chissà quanti altri posti in Italia dove si ri-costruisce lo spazio umano del presente, interrogando i ragazzi, chiacchierando e lavorando con gli insegnanti – semplicemente chiedendo loro perché si ostinano a stare lì in trincea: tutto questo permetterebbe di capire dove deve andare questo paese per non finire peggio di così.