È il 10 aprile del ‘53. È già calato il buio da un’ora, sul bagnasciuga della spiaggia di Torvaianica c’è una ragazza, il suo corpo è riverso, sospinto dal mare. È in parte svestita, non ha le scarpe, né la gonna e le manca un reggicalze, il sinistro. Da lì a poche ore Fortunato Bettini, manovale del posto, si imbatterà in quel macabro ritrovamento. Poche ore prima, il pianista e compositore Piero Piccioni percorreva insieme all’attrice Alida Valli la tratta Amalfi-Roma. I loro destini, per quanto distanti, si incroceranno, innescando il primo grande scandalo della storia repubblicana italiana. Esattamente 70 anni ci dividono dalla tragica fine di Wilma Montesi. La sua storia ha fatto traballare equilibri nazionali importanti tirando in ballo: un ministro, vertici della Dc, un marchese, attrici come Alida Valli e persino un principe, nipote dell’ultimo re d’Italia: ma chi era Wilma Montesi?
Wilma era una 21enne che non passava inosservata per il suo aspetto. Era figlia di un falegname, una famiglia modesta. Nata a Roma, viveva in un appartamento in via del Tagliamento da cui era uscita per un “giretto veloce” il 9 aprile del ’53 e quella fu l’ultima volta che i suoi familiari la videro in vita. Un chilometro e mezzo più in là, in via Alessandria 143, vivevano i nonni assieme allo zio Giuseppe a cui la ragazza era molto legata. Dove abbia trascorso le sue ultime ore è il vero enigma di tutta questa vicenda che resta ancora un caso irrisolto.
La ragazza si era ritirata dalla scuola dopo l’esame di terza media. Ai genitori sembrava non dispiacesse, il suo destino era già stato affidato a un poliziotto che avrebbe dovuto sposare nel dicembre del ’53, tale Angelo Giuliani, di stanza a Potenza. Nell’Italia anni ’50 (e non solo) per affrancarsi dalla propria famiglia nucleare due erano le strade percorribili: sposare un uomo con una solida posizione economica o trovare un lavoro. Ma di matrimonio Wilma non voleva sentir parlare e questo era causa di litigi in casa. Alle 23 di quel giorno, la sua famiglia denunciò la scomparsa. Il suicidio, come emerge da un telegramma inviato a Giuliani, era l’ipotesi più temuta. Il corpo fu ritrovato alle sette e mezzo dell’indomani. Wilma era morta la sera prima.
L’unica perizia, sebbene esterna, alla quale è possibile oggi affidarsi è quella del medico legale di Pratica di Mare, fu il primo a vedere il cadavere. Il suo resoconto dell’11 aprile resta il più attendibile. Venne scartata l’ipotesi dello stupro. La ragazza era vergine, come testimoniò l’autopsia. Dalle prime indagini venne fuori l’ipotesi di un pediluvio in spiaggia finito male sebbene contrastasse con il reggicalze mancante. La sorella Wanda diede man forte a questa pista quando disse che Wilma soffriva di un eczema al piede. Il mare poi fece di certo la sua parte dal momento che la ragazza morì per aver ingerito acqua e sabbia – come si legge dal referto – dopo un’agonia di 15 minuti.
Il 13 aprile una funzionaria del Ministero della Difesa, Rosa Passatelli, andò a casa Montesi dichiarando di averla vista sul trenino che da Roma Ostiense portava a Ostia Lido verso le 18 ma tra Ostia e Torvaianica vi sono una ventina di chilometri. Anche edicolante di Ostia disse di aver venduto una cartolina a una ragazza che le sembrò la Montesi. La distanza rispetto al presunto ultimo avvistamento della ragazza venne quindi giustificata con un complesso intreccio di correnti marine che avrebbe trascinato il corpo a Torvaianica. Il giorno del suo funerale, la famiglia ricevette una lettera anonima firmata da uno sconosciuto che affermò che la ragazza era stata assassinata da un pretendente che non poteva accettare che lei sposasse un altro. Il biglietto cadde nel vuoto generato dall’indifferenza generale. Nonostante le incongruenze e i dubbi, il caso fu presto chiuso.
Intanto, sulle pagine della stampa scandalistica e non soltanto iniziò ad avanzare l’ipotesi del complotto. Il quotidiano Roma scrisse che la ragazza era stata intravista, una decina di giorni prima del 9 aprile, nei pressi di Torvaianica con il “figlio di una nota personalità politica governativa”. Cominciò a delinearsi la sagoma di uno dei personaggi coinvolti, identificbato nella figura di Piero Piccioni. Piccioni era un noto musicista, autore di celebri colonne sonore per il cinema, fidanzato di Alida Valli e figlio di Attilio Piccioni, Vicepresidente del Consiglio e fra i timonieri della Democrazia Cristiana. In un articolo del 5 maggio, “Paese Sera” raccontò di come il figlio Piero Piccioni avesse recapitato in questura gli abiti mancanti della giovane donna assassinata. Il presunto coinvolgimento di Piccioni era già noto a tutti i giornalisti, ma nessuno ne aveva mai fatto il nome. Su “Il merlo giallo”, giornale di destra, già nel mese di maggio era comparsa una vignetta satirica in cui un reggicalze, tenuto nel becco da un piccione viaggiatore diretto in questura. Il messaggio era chiaro. La notizia venne fuori prima delle elezioni politiche del ’53. Piccioni padre successe a De Gasperi dopo la caduta, quella stessa estate, del suo ottavo nonché ultimo governo. Dopo aver ricevuto l’incarico dal Presidente della Repubblica Luigi Einaudi, vi rinunciò considerate le dimensioni dello scandalo.
Il 6 ottobre 1953, il direttore di “Attualità” Silvano Muto, pubblicò un articolo: “La verità sul caso Montesi”, basandosi sulla testimonianza di un’aspirante attrice, tale Adriana Concetta Bisaccia. La Montesi, a suo dire, sarebbe morta dopo un’assunzione smodata di droghe e il suo corpo in fin di vita sarebbe stato trascinato sulla spiaggia. La ragazza gli disse di aver partecipato con Wilma a un’orgia, insieme a nomi di rilievo della nobiltà romana e figli di politici della Repubblica italiana. A pochi metri dal luogo del ritrovamento, c’era la tenuta di Capocotta, affittata dal marchese Ugo Montagna, siciliano trapiantato nella Capitale, legato personalità eccellenti dei palazzi romani. Nacque così la pista dei “capocottari” di cui sarebbero stati membri – secondo il racconto della Bisaccia – i figli dell’alta società romana.
Silvano Muto fu convocato in Procura e poi denunciato per diffamazione. Ritrattò ciò che aveva scritto, poi rinnegò. Anche la Bisaccia fece marcia indietro. Non passò molto tempo che venne fuori un’altra testimone, Moneta Caglio detta “Il cigno nero”, anche lei aspirante attrice, figlia di un notaio milanese. Venne fuori che la Caglio era l’amante di Montagna di cui confermò la colpevolezza, accusando anche Piccioni. La ragazza aveva anche scritto un memoriale che consegnò a un padre gesuita che lo fece arrivare ad Amintore Fanfani, allora Ministro dell’Interno. Fanfani commissionò un’inchiesta al colonnello dei carabinieri Umberto Pompei che nella sua relazione riportò che nei vari traffici in cui è coinvolto Montagna, il marchese “sarebbe uso dare convegno a donne di dubbia moralità allo scopo di soddisfare i piaceri ed i vizi di tante personalità del mondo politico.” Non si può escludere del tutto che nella sua villa, in quegli anni, in piena notte ci si radunasse ma è davvero inverosimile che una 21enne nata e cresciuta in una famiglia semplice e perdipiù negli anni ’50, potesse essersi infiltrata tra personaggi dell’alta borghesia romana. Forse, anzi molto probabile che Wilma Montesi non fosse la donna descritta attraverso le pagine dei giornali dell’epoca. Il suo sfortunato destino potrebbe essere stato strumentalizzato politicamente.
Il padre di Piero Piccioni era il braccio destro di Alcide De Gasperi e nel ’54 fu nominato ministro degli Esteri del governo Fanfani ma il 19 settembre fu costretto a dare le dimissioni, compromettendo pesantemente la sua carriera politica. Due giorni dopo, suo figlio Piero fu arrestato. Si era arrivati pur senza uno straccio di prova al rinvio a giudizio sia per Piccioni che per Montagna grazie alla determinazione del nuovo giudice istruttore Raffaele Sepe, sopraggiunto al precedente Angelo Sigurani. Sepe riprese le indagini e fece riesumare il corpo della ragazza per fare rifare l’autopsia. Il processo fu spostato a Venezia per ragioni di ordine pubblico – considerato il clamore mediatico del caso – ma non si arrivò a maturare una condanna. Il musicista aveva un alibi: aveva trascorso i giorni precedenti la morte di Wilma a Ravello, in compagnia della Valli. Il 9 aprile era tornato a Roma, arrivò a casa verso le 14,30; i suoi, compreso il padre, erano ancora a tavola. Si era ammalato e fu visitato da un medico che confermò il suo alibi. Dopo 59 giorni di carcere sia lui che Montagna ottennero la libertà provvisoria. Sia Piccioni che Montagna furono infine prosciolti per assenza di prove.
Mentre ancora erano in corso le indagini sul conto di Piccioni, il Questore di Roma riferì che per una serie di circostanze, venute a conoscenza della Polizia, si era reso opportuno indagare su Giuseppe Montesi, fratello del padre di Wilma. A inizio ottobre ’54, le indagini si spostarono su “zio Giuseppe”. Tutto partì da una segnalazione dei suoi colleghi che segnalarono che l’uomo, il pomeriggio del 9 aprile, verso le 16, aveva chiesto di andar via dall’ufficio per un “impegno urgente” non specificato. Franco Lionelli aveva riferito che Montesi aveva chiesto il permesso di allontanarsi dopo aver ricevuto una telefonata, dicendo di dover andare subito ad Ostia. Dettaglio importante: lo zio Giuseppe si recava spesso ad Ostia e Torvaianica. In sede di processo lo zio Giuseppe crollò insieme ai suoi alibi ma neanche questa pista portò alla verità su Wilma Montesi.
A 60 anni da quel giorno si colloca l’inchiesta dello scrittore e criminologo Pasquale Ragone, confluita nel suo libro “La verginità e il potere: i fascicoli ritrovati che raccontano le origini del caso Montesi”, partita dal ritrovamento quasi archeologico negli archivi di piazzale Clodio, di alcuni faldoni creduti perduti e ormai sepolti dalla polvere. I primi rapporti su Wilma Montesi erano finiti nei fascicoli del processo a Muto per diffamazione. Nel suo libro, Ragone cerca elementi irrisolti e parte dall’analisi di un elemento cruciale: gli abiti. “Considerato il modo in cui era vestita – abiti umili e consunti – risulta ancora meno credibile che dovesse incontrare degli aristocratici. La verginità e il potere – racconta Ragone – sono i due elementi che caratterizzano la storia. Wilma non era assolutamente una ragazza facile. L’ipotesi più credibile, se si analizza il vissuto privato della ragazza, è che si sia allontanata perché c’era qualcosa che aveva a che fare con la sua vita che non andava. Il corpo di Wilma sembrava l’amo perfetto per far abboccare tutti i pesci: una ragazza morta, il reggicalze assente e una tenuta dove avvengono orge fra potenti. Lei era estranea a tutto questo. La ragazza infatti non si era mai concessa nemmeno al fidanzato, come fu scritto nell’esame autoptico. Ma viveva il tormento di uscire dagli schemi: il fidanzato poliziotto, il matrimonio. Invece che sposarsi lei voleva emanciparsi è questo l’unico elemento bello di questa storia: ha anticipato di gran lunga le conquiste da parte delle donne. Il contrasto tra la sua indole e gli schemi dell’epoca è stata la genesi del dramma Montesi. Voleva essere indipendente e probabilmente lo zio la sosteneva in questo percorso tanto da aver litigato col padre di Wilma.”
Crede lui fosse con lei quando Wilma è morta?
“L’impossibilità di fare analisi e fornire nuove prove preclude si arrivi alla verità ma una ricostruzione storica diversa è possibile. Probabilmente Wilma era in compagnia di un uomo rimasto però sconosciuto alla famiglia, forse incontrato con la complicità di suo zio ma sono solo ipotesi. Wilma Montesi non sapeva di avere una forma di ipoplasia di medio grado: praticamente aveva il cuore più piccolo rispetto al resto del corpo. Lo scoprirono solo in fase autoptica. Wilma avrà avuto un malore e il suo accompagnatore potrebbe aver gestito male la situazione imprevista, avrà pensato a un infarto. Forse, non disponeva dei mezzi per accompagnarla in ospedale, non era dunque un personaggio potente, o molto più probabilmente si trattava di un uomo già impegnato, che non poteva permettersi di farsi trovare in compagnia di una ragazza. Wilma non poteva essere trovata in compagnia di un uomo che non fosse il suo fidanzato: sarebbe caduta la vergogna sull’intera famiglia. Wilma Montesi fu una ragazza ante litteram rispetto alla sua generazione, anticipando le future lotte femministe. Niente droghe e orge: cercò piuttosto la sua emancipazione rispetto a una società pervasa da tabù e proibizioni, impostata su schemi invalicabili. Sposare l’uomo imposto dalla famiglia, doversi occupare della casa e dei figli: Wilma Montesi volle andare oltre, costruirsi un futuro con le proprie mani arrogandosi il diritto di scegliere, fuori da ogni pregiudizio. Proprio il pregiudizio, in un certo senso, potrebbe essere considerato come il vero “assassino” del caso Montesi. Una verità storica da consegnare alle future generazioni”.