“Il quadro normativo” delle norme sull’ergastolo ostativo “è significativamente mutato“. È quello che scrive la Cassazione nelle motivazioni del verdetto con cui l’8 marzo ha preso atto della riforma varata dal governo di Giorgia Meloni il 31 ottobre 2022, dopo le sollecitazioni arrivate dalla Consulta agli esecutivi precedenti. Si tratta dunque dell’ultima puntata della questione relativa all’ergastolo ostativo, il meccanismo che vietava a mafiosi e terroristi, condannati al fine pena mai, di accedere ai benefici penitenziari e alla libertà vigilata, dopo 26 anni di detenzione, se non collaborano prima con la magistratura.

Una legge inventata da Giovanni Falcone, che però la Consulta aveva considerato incostituzionale nel maggio del 2021. Una decisione alla quale si era arrivati dopo che Salvatore Pezzino, 61enne condannato per mafia e omicidio, aveva presentato ricorso al tribunale di Sorveglianza chiedendo la liberazione condizionale dopo aver già scontato più di trent’anni anni di carcere in regime ostativo. La vicenda dalla Cassazione era approdata davanti alla Consulta, che aveva dato un anno di tempo al Parlamento per riscrivere la norma che vieta la libertà vigilata per boss e terroristi che non collaborano: in alternativa pericolosi capimafia, autori di stragi come i fratelli Graviano e Leoluca Bagarella, sarebbero tornati in libertà. La fine anticipata della legislatura, però, aveva fatto interrotto l’iter parlamentare. Dopo le elezioni, dunque, il nuovo governo di centrodestra ha varato un decreto, modificando la norma sull’ostativo così come prevedevano le indicazioni della Consulta.

Al primo vaglio di legittimità, dunque, la Cassazione ha promosso la riforma dell’ergastolo ostativo. I giudici hanno ordinato un nuovo giudizio al Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila. Nelle motivazioni scrivono che la riforma varata dal governo Meloni ha fatto della mancanza di collaborazione con la giustizia “una preclusione soltanto relativa e ha previsto l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative” anche “per i detenuti non collaboranti, ovviamente condannati per reati ostativi, seppure in presenza di stringenti e concomitanti condizioni”. Ad avviso della Prima sezione penale della Suprema Corte, la riforma “ha inciso proprio sulle disposizioni sottoposte a scrutinio di costituzionalità, specificamente sostituendo integralmente il comma 1-bis dell’art. 4-bisd dell’ordinamento penitenziario, a cui ha pure aggiunto due nuovi commi (1-bis.1 e 1-bis.2)”. Si tratta proprio delle norme giudicate incostituzionali dalla Consulta, nel primo giudizio sul caso Pezzino. Poi dopo il varo della riforma da parte del governo, la Corte costituzionale ha rimandato le carte alla Cassazione. Che oggi sottolinea come “il principale portato della nuova disciplina si rinviene nella trasformazione da assoluta in relativa della presunzione di pericolosità ostativa alla concessione dei benefici e delle misure alternative in favore dei detenuti non collaboranti. Costoro sono ora ammessi alla possibilità di proporre richiesta, che può essere accolta in presenza di stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei casi per cui è intervenuta condanna”, si legge nella sentenza 15197, di cui è relatore Giuseppe Santalucia, che è anche il presidente dell’Associazione nazionale magistrati.

Siccome Pezzino si trova in carcere per un cumulo di condanne emesse dalla magistratura di Palermo, tra le quali quella per omicidio con l’aggravante mafiosa, da oltre 30 anni, i supremi giudici sottolineano di non aver esaminato se siano compatibili con la Costituzione le nuove norme che innalzano da 26 a 30 anni la soglia del periodo di detenzione che devono aver scontato i detenuti per reati ostativi per chiedere l’accesso alla liberazione condizionale. Gli ermellini sul punto non possono approfondire il tema – dato che Pezzino ha il requisito dei 30 anni di detenzione in cella – e rimane in sospeso il quesito se la riforma “che nulla prevedendo in relazione alla sua applicazione nel tempo, restringe, con possibile frizione con il principio costituzionale del divieto di retroattività della norma penale di sfavore, l’accesso alla liberazione condizionale”. Un istituto che, prosegue il verdetto, “al pari delle altre misure alternative, costituisce, per usare le espressioni della sentenza n. 32 del 2020 della Corte Costituzionale, una vera e propria pena alternativa con accentuata vocazione rieducativa”. Ora il caso di Pezzino, – che è recluso nel carcere sardo di Tempio Pusania – e della sua mancata collaborazione, deve essere esaminato alla luce della riforma dal Tribunale di sorveglianza de L’Aquila.

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