di Pietro Francesco Maria De Sarlo
L’ipocrisia è il peggior nemico della verità. E allora occorre squarciare il velo di menzogne su questa riforma della Autonomia Differenziata. Innanzitutto sulle sue radici che nulla hanno a che fare con il regionalismo previsto in Costituzione, bensì con quell’humus rappresentato all’inizio degli anni 90 dalle trasmissioni di Lerner come Profondo Nord e Milano Italia: un misto di mistificazione identitaria regionale, separatismo e razzismo nei confronti dei ‘terroni’. Su Rai Play è ancora possibile rivedere il delirio leghista. Delirio che ha sempre visto Calderoli in prima fila, sposatosi in prima battuta con Sabina Negri con rito celtico, e chierichetto di Umberto Bossi nei vari riti dell’ampolla consumati tra raduni con giochi celtico-padani e riti di iniziazione.
A questa pancia del Nord, soprattutto Nord Est, la sinistra non ha saputo opporsi. Anzi ha chinato il capo lasciandosi trascinare fino alla riforma del Titolo V, al preaccordo tra il premier Paolo Gentiloni e i governatori Zaia, Fontana e Bonaccini (sì, proprio quello!) nel 2018, e poi il ddl Gelmini, lascito di Draghi.
Di fronte alla determinazione di Calderoli i politici e intellettuali del Sud sembrano delle educande invitate a un rave party. Dobbiamo invece dirci con franchezza che questa riforma altro non è che una secessione di fatto. A riprova, come le aziende che chiedono pareri legali di comodo, Calderoli ha istituito un Comitato con tanto di esperti di latinorum per convincere gli italiani del suo nuovo credo meridionalista.
Lo sanno anche i sassi che si tratta di un disegno di dubbia costituzionalità ma a Calderoli è già andata bene con il Porcellum, legge elettorale fatta nel 2005, dichiarata incostituzionale nel 2014 solo dopo averci votato nel 2006, 2008 e 2013. Il punto è che si vuole mettere il Paese dinanzi a un fatto compiuto perché una volta fatta la frittata sarà impossibile tornare alle uova. Gli unici che possono impedire questo scempio sono i governatori del Sud. Solo che, tanto per cambiare, privilegiano, al contrario dei colleghi del Nord, gli interessi di partito a quelli dei territori che rappresentano e hanno aderito al ddl Calderoli nella Conferenza Stato Regioni privi di qualsiasi mandato, come han fatto Bardi, Basilicata, e Occhiuto, Calabria.
Per tutto ciò, sperando di essere seguiti in altre regioni del Sud, un gruppo di cittadini lucani che si riconoscono nei principi della Carta di Venosa, tra cui io, stanno attivando le procedure per la richiesta di un referendum consultivo, previsto dallo statuto regionale, di opposizione al ddl Calderoli sulla base degli esempi dei referendum consultivi di Lombardia e Veneto del 22 ottobre 2017.
Si intende chiedere ai lucani di esprimersi sul già citato difetto di legittimità e rappresentanza della adesione della Regione Basilicata e su altri temi su cui impegnare il Consiglio regionale. In particolare la richiesta di par condicio sulle condizione di partenza all’applicazione della legge, richiesta necessaria non potendo seguire l’esempio della Liguria che chiede la proprietà regionale di infrastrutture indivise tra tutti i cittadini italiani, come i tratti liguri di autostrade e i porti, essendo priva la Basilicata di infrastrutture di valore.
A seguire la richiesta di trattenere le tasse nazionali sui profitti delle estrazioni petrolifere e la produzione e distribuzione di energia da tutte le fonti possibili, in analogia alla pretesa delle regioni del Nord di finanziare l’autonomia regionale con le risorse provenienti da tasse nazionali maturate sui territori regionali. Infine reclamare la necessità di considerare nella formulazione dei costi dei Livelli Essenziali delle Prestazioni le economie di scala e di scopo, e – soprattutto – assicurare la trasparenza nelle definizione dei LEP e di rendere pubblici atti incredibilmente secretati che smentiscono gran parte dei luoghi comuni sul Mezzogiorno e che fanno da presupposto al progetto (qui i referendum).