Acque mosse, se non agitate, nella sinistra spagnola. Le elezioni politiche sono dietro l’angolo e trame e alleanze debbono fare i conti con sondaggi tutt’altro che favorevoli. Da qualche settimana un nuovo soggetto è entrato sulla scena politica, è Sumar, formazione guidata da Yolanda Díaz, vicepremier e ministro del Lavoro, che si colloca alla sinistra dei socialisti del capo di governo Pedro Sánchez e in diretta competizione con Podemos, creatura, di fatto, ancora nelle mani di Pablo Iglesias.
In Spagna la sinistra ha spesso vissuto stagioni di lotte intestine e divisioni, al punto che la frammentazione prodottasi nelle elezioni regionali dello scorso anno portò alla clamorosa sconfitta in Andalusia, antico bastione socialista.
I precedenti spaventano, per questo Contexto (www.ctxt.es), rivista fortemente orientata a sinistra, in un editoriale di qualche giorno fa titolava allarmata “Unidad o barbarie”. Con il paradosso, segnalava il magazine, che “Sumar”, formazione che già nel nome dovrebbe tendere all’aggregazione, non sembra preoccupata dell’assenza di Podemos alla sua presentazione né degli attriti del partito di Iglesias con tutte le altre forze della coalizione.
Un “desencuentro” che denota una mancanza di generosità.
Eppure Yolanda Díaz, abogada forgiata nel mondo del sindacalismo dei cantieri navali della Galizia, è conosciuta come persona rigorosa sì ma avvezza al compromesso. La sua stessa esperienza parlamentare è frutto di una singolare alleanza tra tutti i movimenti galiziani di sinistra, piccole formazioni (En Marea, En Común, Podemos, Galicia en Común) capaci di fare dell’unità un vero manifesto politico.
A Madrid però si suona un’altra musica, il livello di competizione nello spazio a sinistra del Psoe è acceso e crea distonie. Ne è preoccupato lo stesso premier Sánchez che fa di tutto per non commentare le tensioni che serpeggiano in un esecutivo dove i ministri delle formazioni minori hanno partecipato alla presentazione di Sumar mentre quelli di Podemos hanno preferito disertare. Il premier glissa con abilità ad ogni domanda sugli alleati, svia affrontando questioni economiche per sottolineare ad ogni occasione come la catastrofe economica e sociale prospettata, e forse attesa, dal Partito Popular sia smentita dal buon andamento dei conti, dal tasso di crescita dell’occupazione e del Prodotto interno lordo.
La Spagna non è l’Italia, non ha vissuto gli smottamenti sociologici che hanno portato in pochi anni le periferie dei grandi agglomerati urbani a identificarsi con la destra e il centro geografico delle città con la sinistra in doppiopetto. Le radici delle formazioni di sinistra spagnole affondano ancora in ceti popolari, in forze sindacali e in un movimento femminista in grado di mobilitare le masse.
Ora si aspetta un ulteriore “giro a la izquierda”, un insieme di misure che sappiano leggere la realtà collegandosi a settori ampi della cittadinanza e a fette consistenti di elettorato disilluso. Per approntare un recupero la retorica antifascista da sola non paga, si è percepito chiaramente nelle elezioni regionali nella Comunidad de Madrid e in Andalusia dove a “frenare” l’avanzata nelle istituzioni della destra estrema furono i moderati dei populares.
Richiami storici e parole ridondanti non bastano più.