Politica

Renzi-Calenda, i Fratelli coltelli della politica italiana: da Civati a Letta e Conte, i frantumatori seriali di alleanze ora si rottamano a vicenda

In principio, per uno, fu Pippo Civati. L’altro invece mollò il Pd intero andandosene dopo essere stato eletto a Bruxelles. Adesso sono arrivati allo scontro tra di loro, i Fratelli coltelli della politica italiana. L’ultimo fotogramma di un’epopea di rottamazioni, sganci improvvisi, nuovi abboccamenti e tanti cari saluti conditi di “stai sereno”, baci sulle guance, pop corn. Matteo Renzi e Carlo Calenda sembrano i protagonisti dell’episodio di Spiderman andato in onda nel 1967 e diventato un meme tra i più virali degli ultimi anni: i due Uomo Ragno che si puntano l’indice a vicenda. La colpa è tua. No, è tua. Così uguali da sembrare indistinguibili eppure inadatti alla fusione in un partito unico. Ma chi lo sta facendo saltare? Un intrigo impossibile da sbrogliare perché i due sono campioni del bluff e adesso va’ a capire chi è il campione di poker e chi il pollo da spennare. Di mezzo ci sono i soldi, ma anche la leadership, le regole d’ingaggio. Tutto è stato tirato in mezzo nell’organizzazione di un’operazione Valchiria in salsa romana.

Civati e Letta, gli esordi della serialità – Una specialità della casa, anzi delle case. Sia quella di Renzi che quella di Calenda, i frantumatori seriali di alleanze. L’ex presidente del Consiglio, correva l’anno 2011, scaricò l’allora consigliere regionale lombardo Pippo Civati dopo averci composto il duo di Rottamatori, declinando al singolare l’arte di sostituire il vecchio col nuovo. Fecero insieme la prima Leopolda e la Carta di Firenze, poi alla seconda neanche lo invitò e quegli intenti divennero carta straccia. ”Lo scorso anno, uno degli slogan della convention alla stazione Leopolda era ‘prima il popolo, poi il leader’: ecco, mi pare che adesso Matteo si stia occupando più del leader che del popolo”, sottolineò Civati. E anni dopo commentò caustico: “Trovo che il tradimento è stato il suo modo di fare politica: capovolgere le cose, rottamare. L’aspetto caratteriale e quello politico vanno insieme”. Lo sa bene Enrico Letta, costretto a fare le valigie da Palazzo Chigi dopo che l’allora segretario del Pd rispose così a Daria Bignardi sulle sue continue critiche al presidente del Consiglio: ”In questi 9 mesi il governo sulle riforme non ha fatto passi avanti, e se chiudo gli occhi e penso a cosa ha fatto il governo mi viene in mente l’Imu. Ma facciamo un hashtag Enrico stai sereno, vai avanti”. E giurò: “Non sto facendo manfrine per togliergli il posto”. Era il 17 gennaio 2014. Trentasei giorni dopo Letta fu costretto a passargli la campanella e la guida del Paese.

Pop corn, pieni poteri e mosse del cavallo – Nel 2018 il suo divertissement consistette nel provocare il fallimento delle trattative tra il Pd e il M5s per la composizione del governo. “La tattica del pop corn”, la chiamò. Ma a distanza di 15 mesi fu proprio lui a spingere per la nascita del Conte II con i pentastellati. Impedire i “pieni poteri” di Matteo Salvini divenne la parola d’ordine che nascondeva la necessità di guadagnare tempo, allontanare le urne, andarsene dal Partito Democratico e mettere in piedi Italia Viva. Il piano si concretizzò in undici giorni: giuramento del governo il 5 settembre, annuncio del nuovo partito il 16. Altro giro, altra corsa. A decretarne la fine fu sempre lui. Partì con il piano Ciao, che voleva essere l’acronimo di “Cultura, infrastrutture, ambiente e opportunità” e divenne il grimaldello con il quale iniziare a scassinare il governo giallorosso, per poi sabotarlo definitivamente attraverso le recriminazioni su delega ai servizi e il Mes. Tutto all’ombra del tema della giustizia. Creatore e rottamatore insieme, di mossa del cavallo in mossa del cavallo al fine di evitare la rottamazione di se stesso, ridotto a leader di un partito-corpuscolo della stessa specie di quelli che combatteva a suon di “no ai veti dei partitini”.

Bruxelles solo andata, addii e ritorni falliti – L’altro spiderman di questo romanzo centrista (o “centrino”) ne ha spesso emulato le giravolte rapide. Dopo essere stato suo ministro non senza turbolenze, Calenda fu capolista dei dem a Padova alle Europee 2019 e volò tra Strasburgo e Bruxelles. Era il 29 maggio. Tre mesi dopo, complice la mossa di Renzi, se ne andò sbattendo la porta: “Rifiuto l’accordo con chi cavalca le peggiori pulsioni antipolitiche e cialtronesche, cioè col M5s”, scrisse in una lettera a Nicola Zingaretti. E partì il rilancio di Siamo Europei, poi diventato Azione. Tutti e due al centro, contendenti per natura e dialoganti per necessità. E infatti per anni sono state molte le bastonate e poche le carezze. Calenda ha criticato Renzi su tutto: l’ammiccamento col centrodestra in Sicilia, le conferenze con Bin Salman e quel “mischiare” affari e ruolo politico. Si spinse finanche a dire, era l’autunno di due anni fa, che il suo modo di fare politica gli faceva “orrore” e descrisse Italia Viva come “un gruppo di persone che parla solo di quello che dice il loro leader”. Chiusura col botto: “Ma chi se ne frega di quello che dice Renzi”. Dopo il crollo del governo Draghi, quindi, l’alleanza con il Pd sembrava naturale. E infatti Calenda la sottoscrisse. Con tanto di baci e abbracci insieme a Letta. Sembrava il suggello e invece era l’allievo che superava il maestro del “stai sereno”: neanche due giorni dopo aveva già mandato l’intesa a carte quarantotto.

Separati in casa (riformista) – Addio dem, addio anche a +Europa. L’ex ministro dello Sviluppo Economico che aveva “detto 18 milioni di volte” – il conteggio è proprio suo – di non volersi alleare con Renzi finì per farlo. Non un cartello elettorale, giuravano, ma l’inizio di un percorso riformista. Valso il 7,8 per cento alle elezioni, meno di quanto auspicato in lungo e in largo da Calenda, ma abbastanza per sognare di emulare Emmanuel Macron. L’annunciò è arrivato in pompa magna lo scorso 4 dicembre (sì, proprio quella data lì) dal palco del MiCo di Milano: “Via alla federazione Italia Via-Azione. Nel 2024 saremo il primo partito e Meloni andrà a casa”, è la sintesi del discorso fiume di Renzi che definì il partito, ad oggi immaginario, come “la casa definitiva dei nostri progetti politici europei e italiani”. Il percorso è iniziato e dovrebbe concludersi a giugno, ma il terremoto di questi giorni – innescato dagli scarsi risultati nelle due tornate di amministrative e dalla direzione del Riformista assunta da Renzi – rischia di minarne le fondamenta. O almeno di far vivere i due da separati in casa. Perché se l’amore è già finito, i soldi dei gruppi parlamentari restano essenziali per la sopravvivenza.

Twitter: @andtundo