“Un deterrente realistico al matrimonio è che non puoi permetterti un divorzio” diceva Jack Nicholson che è stato sposato una volta nella vita e mille per finta. Il caso della coppia che scoppia Renzi-Calenda, divisi su tutto ma uniti dai soldi, è lo stesso, con 14 milioni di buone ragioni per proseguire con un matrimonio “di comodo”. Perché a tanto ammontano i contributi alle spese garantiti da qui a fine legislatura dalle Camere al gruppo unitario Azione-ItaliaViva-RenewEurope. In caso di scissione invece salterebbero, perché alla Camera occorrono 20 deputati per fare un gruppo e 6 al Senato. Numeri che nessuno dei due partiti avrebbe da solo. L’effetto immediato del divorzio sarebbe dunque di sterilizzare quella “dote” che tornerebbe dritto nelle disponibilità di Palazzo Madama. Fonti citate dall’Adnkronos riferiscono di un’ipotesi di “accordo tecnico” per scongiurarlo: il gruppo rimarrebbe in vita, ma con l’autonomia tipica di quello Misto, cioè ognun per sé quando si vota. La soluzione sarà oggetto di studio nei prossimi giorni.
Il tema dei soldi lo aveva sollevato Calenda pochi giorni fa: “Renzi non vuole sciogliere Italia Viva e non vuole mettere in comune il 2 per mille per la campagna in vista delle europee del 2024”. Facendo due conti si tratta di “modesti” 800mila euro, perché tanto hanno raccolto dall’Irpef i due partiti. Se di veri soldi si deve parlare, bisogna allora guardare altrove, nell’unica vera linfa che li sostiene e cioè le spese parlamentari che le due Camere assegnano ai gruppi. Alla Camera il gruppo renziano può contare su 9 deputati, quello di Calenda su 12. Solo insieme fanno il minimo di 20 che garantisce l’accesso ai 30 milioni di fondi per le spese dei gruppi deliberati nel bilancio 2023 di Montecitorio e negli anni a venire. In tutto, la scissione dei deputati costerebbe 8 milioni di euro. Al Senato il numero legale per un gruppo è stato ridotto a 7 per effetto delle norme anti-transfughi. Ma Italia Viva conta 5 senatori e Azione 4. Una volta divisi perdono una “dote” di sei milioni di euro per i prossimi anni. Ecco spiegati lemmi e dilemmi della coppia-scoppiata: come diceva l’attore, non possono permettersi il divorzio. Anche perché di partiti personali nati in provetta si tratta, uno dal nulla e l’altro da un pezzetto di Pd senza una “base” che finanzi.
Che fosse il tema dei temi era chiaro da giorni. Calenda che punta i piedi sulla Leopolda, che l’altro vuole invece come “trampolino di lancio”, per così dire, delle europee. Perché il veto? Perché la Leopolda è il vecchio arnese con cui Renzi finanziava i (suoi) progetti politici. Se una parte del Terzo Polo resta appesa alla mammella delle Camere difficile contare e dividere per due. Insomma, più che la direzione del Riformista o le conferenze arabe, questo è il nodo “democratico” che i Calendaboys pongono da giorni, agitando non a caso anche il tema della scelta del tesoriere Bonifazi. La questione conta più della ruggine politica, del cruccio per aver perso la partita delle commissioni parlamentari andate ai renziani, vigilanza Rai compresa finita alla Boschi.
Come si è visto però il politico di Rignano cerca da giorni di sfuggire al partner dei Parioli come chi vuol tenersi le mani libere. “Ci vediamo a Napoli”, diceva nella sua eNews per annunciare che finalmente il 10 giugno l’assemblea di Italia Viva si sarebbe ritrovata proprio per approvare la costituzione del percorso verso il partito unitario. Una nota di Iv in serata prova a smorzare la polemica rilanciando il congresso: dopo il 30 ottobre, si legge, il partito è pronto a sciogliersi. Intanto, è però saltata la riunione del Comitato politico prevista nel pomeriggio, dopo il fallimento dell’incontro di ieri. Renzi tace. Un silenzio che conferma la sua linea: vediamo come vanno le europee e poi si decide. I suoi dubbi sono sulla solidità dell’intero progetto, visto il 4% in Lombardia e il 2,5% in Friuli e nessuna prospettiva al Sud. Il bacino elettorale non c’è, salti allora l’abbraccio con Calenda. Purché, citando la Dietrich, “gli alimenti colmino il vuoto”.