di Stefano Pedrollo
Non ci sono più scuse: oltre ai dirigenti anche i medici hanno le loro responsabilità, soprattutto chi lavora in intramoenia. Le liste di attesa infinite dividono la sanità pubblica in serie A, per quelli che possono permettersi di rivolgersi al privato, e serie B per tutti gli altri che non possiedono santi in paradiso.
L’Istituto Superiore di Sanità stabilisce che gli enti, le aziende e le strutture pubbliche e private che erogano prestazioni per conto del servizio sanitario sono tenuti ad indicare nel proprio sito, in una apposita sezione denominata “Liste di attesa”, i tempi di attesa previsti e i tempi medi effettivi di attesa per ciascuna tipologia di prestazione erogata, e che il presente obbligo di pubblicazione è a carico di enti, aziende e strutture pubbliche e private che erogano prestazioni per conto del servizio sanitario.
Tutto ciò è diventato insufficiente e inefficace per risolvere il problema. E’ necessario pubblicare online il calendario completo delle visite e degli orari disponibili nelle singole Ulss, per poter verificare il carico medio per ogni specializzazione. Se i medici svolgono un incarico pubblico, esistono strumenti informatici per poterne verificare la disponibilità e il numero di visite effettuate in un determinato periodo.
I cittadini vogliono sapere in tempo reale quante visite vengono prenotate nel pubblico e quante nel privato e se l’acquisto (oneroso) della strumentistica tecnica ha un ritorno nel miglioramento delle condizioni dei pazienti e in termini di costi/benefici. Il sistema di accreditamento dei privati, nato per sopperire alle mancanze e agli sprechi del pubblico, ha di fatto aumentato i costi per il cittadino in termini di spesa e di tempo.
Gli ospedali privati possono permettersi di scegliere le visite e gli interventi più remunerativi, possono permettersi sempre nuovo personale, e nuove strutture e macchinari; il pubblico vede invece il paradosso della costruzione di nuovi edifici faraonici (magari a debito illimitato con il project financing), dei costi alti per la prevenzione e il controllo del territorio (che i privati si guardano bene dal fare), e livelli essenziali di assistenza sempre calanti.
La sanità non deve essere una competizione, e i più deboli devono essere tutelati per il bene di tutti, perché (anche egoisticamente) non curare i più deboli comporta dei rischi per tutti. La salute pubblica mal si abbina al sistema competitivo aziendale, ma se proprio non è possibile smantellare l’attuale sistema è necessario renderlo il più trasparente possibile.