di Gabriella Izzi Benedetti
Col passar del tempo, ormai fuori – o quasi – dal guado, dimentichi (è così facile rimuovere, a nostro uso e consumo) di un pericolo dal quale ci siamo salvati, è tutto un recriminare, cercare di distruggere l’immagine, la reputazione di chi si è trovato all’improvviso nel bel mezzo d’un tornado. La pandemia vissuta a posteriori come arma punitiva.
I giovani sono depressi, colpa della gestione della pandemia, non si dovevano tener chiusi in casa (e si è visto, quando in pieno lockdown si è permessa una partita di calcio in quel di Bergamo, o quando si sono incontrati proditoriamente gruppi di giovani, come è cresciuto il numero di ricoveri e decessi, mentre qualcuno dalle piste da sci proclamava che non c’era da preoccuparsi e presidenti di Regione si rifiutavano di indossare la mascherina). Tutto, che sia la crisi economica, che siano i malesseri ricorrenti, tutto è colpa di come è stata gestita la pandemia. Non importa se, a normalizzazione avvenuta, il flusso dei turisti è raddoppiato perfino, e lentamente tutto si regolarizza, non importa se queste chiusure propedeutiche hanno salvato milioni di individui, se i malesseri, ammesso che siano collegati al Covid, sono un fattore indipendente dalla gestione dello stesso. Non si doveva chiudere. Punto. Addirittura non dovevano essere usate terapie intensive. Siamo diventati tutti scienziati, sappiamo perfettamente quello che era bene fare, non solo a posteriori, ma senza un minimo di logica, di coscienza etica, di competenza soprattutto.
Si criticano i camion dell’esercito che hanno attraversato Bergamo carichi di salme. Non si potevano affidare a privati? E perché?! La Stato dunque, dopo che le Rsa privatizzate avevano così malamente gestito il Covid, addirittura mettendo malati assieme a sani, doveva lui, Stato, ricorrere a privati, pagarli, quando tutto questo poteva essere non solo un risparmio, ma una restituita dignità a quei poveri morti. Eh no! Lo Stato l’ha fatto per fare sfoggio di sé. E poi è proprio vero che fossero reali quei morti? Andiamolo a chiedere ai parenti dei defunti. Altra vexata quaestio: non è vero che il Covid è partito dai pipistrelli, ma da esperimenti in laboratorio sfuggiti di mano. D’accordo, ma che differenza fa, se ci è piombata addosso all’improvviso una situazione nuova, sconosciuta, pericolosissima che richiedeva velocità di azione, e chi l’ha gestita ha fatto del suo meglio al punto di essere divenuto un esempio per gli altri paesi? Eh, no! Se ne parlava da tempo, qualcuno aveva già dei dubbi, si era letto qua e là. Bene, ma c’è stato un qualche scienziato che nel frattempo ha creato un antidoto, ha trasmesso dati per poter addivenire a soluzioni? No. E allora? Cosa cambia? Certo sarebbe bastata una palla di vetro per vedere il futuro, un qualche oracolo per seguirne i dettami, com’è che non ci si è pensato?
Che ci sia stato chi ha approfittato della situazione a suo pro è innegabile, ma non certo il personale sanitario stremato, spesso al collasso e purtroppo in alcuni casi vittima del contagio. Né il governo che si è mosso rapidamente e che ce l’ha messa tutta, mentre alcuni politici e gente legata al mondo del business cercava di minimizzare.
Si arriva oggi a negare perfino o quasi che l’epidemia ci sia stata. Un’invenzione? Una macabra messa in scena? Complottisti, negazionisti; di tutto e di più. La serie di travisamenti è tale che andremmo all’infinito.
Ma su di un dato vorrei soffermarmi. Com’è che questi giovani si sono dimostrati così fragili? Strano, per secoli bambini poveri, o meno poveri, ma costretti per questioni oggettive, specie se provenienti dalle campagne, hanno fatto chilometri, magari fra la neve, per andare a scuola, hanno passato pomeriggi di solitudine, non c’erano internet, lezioni da remoto, televisori, molti non avevano in casa che pochissimi libri o niente, che pochissimi giocattoli o niente, ragazzi hanno spesso lavorato e studiato al limite delle forze, bambini, giovani, adulti, sono stati chiusi per mesi in soffitte o cantine per salvare la pelle dalle razzie nazifasciste, sono stati internati in campi di concentramento, umiliati, affamati, seviziati, ma ce l’hanno fatta. Come non pensare a Liliana Segre per fare solo un nome? Chi ha qualche anno ricorderà le fughe, le sirene, le città distrutte dalle bombe e, dopo l’armistizio, la fame, le scuole chiuse, la desolazione. Pensiamo a don Lorenzo Milani e al gruppo di ragazzi emarginati che ha incontrato, a quanto entusiasmo e voglia di riscatto fosse in quelle giovani menti; ho esperienza diretta di un anno di insegnamento con ragazzi disagiati, abbandonati a se stessi; alcuni li ho rivisti, mi sono tenuta informata; ce l’hanno fatta. Come mai?
Per secoli il mondo è stato un insieme di disagi, privazioni, epidemie senza rimedi, carestie, dislivelli sociali profondi; c’è stato tutto un concentrato di sofferenze e privazioni. Eppure l’essere umano ha reagito. Com’è che questi giovani sono crollati? Eppure non erano perseguitati, finestre e terrazzi potevano essere aperti, uscite brevi, possibili. Facevano lezione comunque, da remoto, il cellulare li collegava con gli amici, gli incontri internet erano frequenti. È che questi giovani non sono stati educati alla rinuncia, hanno avuto di tutto e di più, i genitori li hanno assecondati in tutto, hanno cavalcato i social per difendere i figli qualunque cosa abbiano fatto, anche la più improponibile; i loro figli avevano sempre ragione; e dunque i ragazzi hanno perduto il senso del limite, della responsabilità, dell’etica.
Un mondo che sempre più si riconosce nel consumismo, nella banalizzazione, in una serie di esternazioni gaudenti che non danno felicità, per cui alla fine i giovani si acquattano nel nichilismo, si rifugiano nelle droghe. Divengono reattivi, offensivi – non diversamente da tanti adulti, comunque. Soffrono per non aver un punto di riferimento, poiché i genitori, proprio nell’assecondarli senza mai dire di no, non sono una vera guida ai loro occhi.
È un conflitto terribile quello di amare e non avere sufficiente stima. Amore e rispetto, fiducia, sono interdipendenti. Questi ragazzi, privi della capacità di accettare un limite, non hanno sviluppato quell’ossatura interiore che tiene botta alle contrarietà. Si è passati da un’educazione troppo punitiva a una troppo permissiva. Dimentichi del detto latino: est modus in rebus. E allora la pandemia non è stata la causa, ma il vaso di Pandora che ha scoperchiato questa realtà. Facciamocene una ragione. Cerchiamo di porvi rimedio. Altrimenti se la felicità è nel bere e drogarsi, nell’unirsi in gruppo allo scopo unico di un divertimento che è solo fuga da se stessi, è una felicità solo di facciata, che nasconde una grande solitudine interiore, è un veicolo di morte. Quante giovani vite spezzate, specie dopo una nottata in discoteca. Non tutti i giovani sono così, tantissimi non sono così, per fortuna. E continuare a poggiare l’accento su chi fa rumore, nella sua negatività e aggressività, da parte dell’opinione pubblica, cercando colpevoli inesistenti, non aiuta la società a rientrare in un’ottica di responsabilizzazione e di oggettiva ottica di giudizio. I fomentatori del massacro mediatico hanno un unico obiettivo, distruggere.
La pandemia c’è stata, è un dato di fatto. Ci sono stati errori nel gestirla? Può essere, eravamo di fronte all’ignoto, e ci è voluto coraggio, determinazione. Anziché demonizzarla e demonizzare chi ha fatto il possibile per superarla, dedichiamoci a maturare, a raggiungere obiettività di giudizio, al superamento delle divergenze, che portano a pericolose vendette, perché è solo nel riconoscerci parte di una comunità, al di là degli schieramenti e delle opinioni, che possiamo far fronte al prossimo pericolo. Qualunque esso sia. Siamo nella stessa barca. Che si voglia o no.