“Questo festival è truccato. Lo vince Fausto Leali”. Poi lo vinse Luca Barbarossa, ma l’incursione sul palco di Sanremo 1992 a firma Cavallo Pazzo, al secolo Mario Appignani, è una delle tracce più memorabili in termini di seguito in diretta tv nazionale per colui che fece dell’incursione scomposta, inattesa, spettacolare, clamorosa un segno personalissimo antisistema. La notizia comunque è che Cavallo Pazzo, morto a 41 anni nel 1996 per Aids, viene omaggiato dal 13 aprile 2023, negli spazi espositivi del WeGil di Roma, con una mostra fotografica intitolata: Cavallo Pazzo / Mario Appignani – Frammenti di una Vita Underground, curata da Valerio M. Trapasso.
Sono 33 gli scatti fotografici inediti del giornalista e fotografo Andrea Falcon che seguì Cavallo Pazzo per tutto il 1994. Quando ancora Gabriele Paolini non aveva ideato il posizionamento oltre le spalle di Paolo Frajese, quando ancora i social non erano quella mania iperpresenzialista dilagante, l’ “indiano metropolitano” Appignani, un’infanzia durissima tra disumani orfanotrofi, autore di una delicatissima autobiografia in forma di racconto, fungeva da icona trasgressiva e sfrontata rispetto ai rituali controllati della comunicazione pubblica e dell’esibizione potere.
Appignani invase dapprima i campi di calcio negli stadi, seguendo l’amata Roma; poi si intrufolò nell’arena politica tra comparsate alle spalle di nobili comunisti, perfino di Pasolini o ai comizi di Pannella (Cavallo Pazzo è stato militante del partito Radicale, del resto); infine visse come obiettivo massimo, divenendo mina inesplosa, l’incursione in prima serata e in diretta tv. Sanremo ’92 appunto e poco tempo prima la serata di premiazione del Festival di Venezia da Piazza San Marco, sempre con Pippo Baudo a condurre. L’odore di pastetta tra i due, e visto che Baudo fu co-protagonista pure del finto suicidio di Giuseppe Pagano, fu altrettanto leggenda di quanto Cavallo Pazzo provocò con le proprie incursioni.
Il suo slancio plastico, il suo tuffo slalomeggiante tra ali di statici bodyguard ricorda oggi il runner che semina il bolso carabiniere sul litorale marittimo durante la pandemia, anche se questa performance atletica gli fece guadagnare perfino studi accademici dove finì per essere definito nientemeno che un culture jammer. Per capirne forse qualcosina di più di questo omino secco dal viso scavato con nervatura anni settanta va visitata proprio la mostra di Trapasso e Falcon. Sfuggente, imprevedibile, inarrestabile, Appignani non ha voluto mai svelare quel sé profondo, quel tragitto prolungato e infinito, quella fuga oltre una scontata e tragica vita difficile, che è diventata nei decenni del ricordo sia distanza che mistero, sia naturale pena umana che interrogativo impossibile dell’essere. “Più ci passavo tempo insieme più cercavo di capire chi fosse. Con il rischio di non capirlo mai. – scrive Falcon nel catalogo della mostra. “Era spontaneo, semplice, alla mano. Raccontava un sacco di cose ma lasciandomi spesso il dubbio se credergli. Molte volte era spiazzante: quando pensavo che l’avesse sparata grossa scoprivo poi che mi aveva svelato una verità oppure accadeva il contrario”.