“È la conferma plastica che la politica fiscale procede con il pilota automatico: l’abbiamo lasciata alla Ue, è indipendente dal governo in carica. Che ci sia Draghi o Meloni è lo stesso”. Dopo aver letto il Documento di economia e finanza appena pubblicato sul sito del Mef Gustavo Piga, docente di Economia politica all’Università Tor Vergata di Roma, ribadisce il giudizio dato lo scorso anno sulla prima manovra del nuovo esecutivo: passata l’emergenza pandemica e archiviata la speranza che il Pnrr potesse cambiare il quadro, “si fa una massiccia operazione di austerità“. E mentre in Francia e Germania si scende in piazza contro sfruttamento e precariato e per chiedere aumenti salariali, in Italia “i sindacati assistono inerti alla mancata indicizzazione dei salari“.
Il Def, argomenta l’economista dichiaratamente europeista ma convinto che le regole del Fiscal compact abbiano fallito e contribuito a far rimanere l’Italia grande malato dell’area euro “conferma l’intenzione di ridurre il deficit/pil dal 5,6% del 2022 (il dato ufficiale è all’8% ma solo per effetto del ricalcolo legato al Superbonus ndr) al 4,5% – cosa che equivale a sottrarre all’economia oltre 20 miliardi – facendo crollare i salari reali dei dipendenti pubblici e la spesa della pa per gli acquisti di beni e servizi. Il che vuol dire meno ecotomografi per gli ospedali, meno soldi per i pasti a scuola, per le macchine per la polizia, per la manutenzione delle strade”. Nel 2026 si prevede un calo del deficit al 2,5%: “Siamo più realisti del re. E già nel 2024 torneremo all’avanzo primario (entrate superiori alla spesa pubblica al netto degli interessi ndr). Parliamo di restrizioni da 80-100 miliardi su un quinquennio”. Certo le cose di qui a tre anni potrebbero cambiare. “Ma gli imprenditori sceglieranno sulla base di questi dati se investire o meno in Italia. Chi lo farebbe in un Paese che tra 2020 e 2023 ha registrato una crescita cumulata del 2% contro il +3 dell’area euro e il +6 degli Usa e adesso progetta ulteriori strette? Una prospettiva del genere influenza le aspettative“.
Quanto all’annunciato taglio del cuneo fiscale, finanziato lasciando correre il deficit un po’ di più rispetto all’andamento tendenziale, “quello spazio è stato ritagliato attraverso stime sul tasso di crescita del pil molto ottimistiche rispetto a quelle del Fmi in modo da poter dire che si sarebbe fatta una mossa espansiva. Ma il confronto tra deficit 2022 e 2023 conferma che l’austerità resta. E questo non è stato deciso nelle aule parlamentari: semplicemente si è lasciato fare all’inflazione, tenendo costante la spesa pubblica. Così si mette a segno un risparmio del 15% circa su due anni, a fronte dell’aumento dei prezzi. Significa che i dipendenti pubblici sono più poveri di prima del 15%, con riflessi negativi sul ciclo economico e con la conseguenza che nessuno vorrà più lavorare nella pa“. Come del resto sta già succedendo: la fuga non è solo dai contratti a termine per il Recovery ma pure da quelli a tempo indeterminato con stipendi assurdamente bassi.
Per il futuro, nel documento si conferma che i redditi da lavoro dipendente in rapporto al pil “sono previsti in lieve riduzione nel 2023, al 9,4 per cento, e successivamente in discesa fino a toccare l’8,4 per cento nel 2026”, ma questa crescita “non sconta ulteriori rinnovi contrattuali del pubblico impiego” che potrebbero essere finanziati con il solito “rafforzamento della revisione della spesa corrente“. Impresa che appare più che ardua: Il Sole 24 Ore ha quantificato in 32 miliardi le risorse necessarie per i rinnovi alla luce del livello raggiunto dall’indice di inflazione (Ipca) a cui sono ancorati i contratti. Cifra che il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo parlando a Radio 24 ha definito “non sopportabile”.
Risultato: “Prenderemo solo la parte negativa del Pnrr, l’articolo del 10 del regolamento sul Rrf che impone la continuazione dell’austerità, e non quella positiva, perché non abbiamo il personale per realizzarla. E per ridurre il deficit non possiamo assumere a tempo indeterminato e pagando bene. È un circolo vizioso spaventoso, drammatico per un europeista”. La riforma del Patto di stabilità proposta dalla Commissione, secondo Piga, non farebbe che peggiorare le cose perché consentirebbe a Bruxelles di “dividere i paesi tra quelli di serie A (senza “sfide” di debito) e quelli di serie B” imponendo ai secondi maggiori aggiustamenti pena sanzioni “più efficaci”. Paradossalmente, spiega Piga, risulterebbe addirittura più appetibile per l’Italia l’ultima proposta arrivata dalla Germania secondo cui bisognerebbe tagliare il debito almeno dell’1% l’anno.
La diagnosi di Piga è in parte condivisa dai sindacati: Serena Sorrentino, segretaria generale Fp Cgil, ha per esempio attaccato il governo non aver previsto “risorse per i rinnovi contrattuali per il triennio 22/24 e per un piano straordinario di assunzioni sufficienti a garantire i livelli di assistenza fondamentali ai cittadini: salute, infanzia, sociale, sicurezza urbana e del territorio”. Ma finora non si sono certo viste straordinarie mobilitazioni per un aumento dei salari, ricorda il professore. “In Germania sono scesi in piazza per questo, in Italia l’impressione è che siamo così frastornati e terrorizzati di perdere il lavoro che non si protesta nemmeno. Forse una parte della spiegazione sta anche nel fatto che i sindacati rappresentano ormai soprattutto i pensionati? In parte è vero, ma è innegabile che i sindacati sono forti quando l’economia tira e hanno forza contrattuale”.