Il contributo del Recovery plan alla spesa per investimenti pubblici si è fermato nel 2022 allo 0,2% del pil: poco meno di 4 miliardi. Il dato, contenuto nel Documento di economia e finanza pubblicato giovedì dal Mef, è la conferma dello stallo nella messa a terra dei fondi già certificato dalla Corte dei Conti. Ma numeri altrettanto “preoccupanti” – così li definisce il documento – emergono dall’allegato sullo stato di attuazione della politica di coesione europea e nazionale, firmato dal ministro Raffaele Fitto che ha presentato la stessa relazione in cdm il 16 febbraio. Lì si legge che su un totale di 126,6 miliardi relativi alla programmazione 2014-20 ne sono stati spesi solo 43, il 34%. Restano oltre 80 miliardi. Per non perdere i fondi Ue occorre usarli entro la fine del 2023, ma per farlo “sarebbe necessario spendere, in meno di un anno, un volume di risorse quasi pari a quanto rendicontato complessivamente dal 2015 ad oggi“. Considerato che siamo a metà aprile, negli otto mesi maggio-dicembre andrebbe impiegata la stessa cifra che finora l’Italia è riuscita a spendere in otto anni.
Dalla scomposizione per tipologia delle risorse utilizzate emerge poi un quadro disarmante anche sulla qualità della spesa. I soldi europei, per evitare il disimpegno automatico, sono stati impiegati in misura maggiore (54%) ma “mediante il ricorso massiccio ai progetti retrospettivi“, ovvero rimborsi di vecchie opere che poco possono avere a che fare con gli obiettivi di miglioramento della qualità della vita e riduzione dei divari del Fondo sociale europeo e Fondo europeo di sviluppo regionale. Quanto alle risorse nazionali e regionali (il cofinanziamento), “mancando un incentivo effettivo all’utilizzo delle risorse, i singoli programmi sono divenuti dei contenitori di idee progettuali e allocazione programmatica delle risorse senza un impegno concreto alla effettiva realizzazione“. L’aspetto ritenuto “più allarmante” è che “a dispetto del disegno originario, delle finalità e dei principi sanciti dai Trattati, in Italia non è stata garantita l’addizionalità delle risorse della politica di coesione, in quanto tali politiche hanno agito in sostituzione delle politiche ordinarie, anche in considerazione dei continui tagli alla spesa per investimenti“. Ed è anche per questo che in Italia la riduzione dei divari Nord-Sud, che era l’obiettivo di quegli interventi, non c’è stata. “L’Italia non riesce a spendere in maniera né soddisfacente né efficiente i fondi di coesione”, ha detto Fitto venerdì commentando i dati pubblicati sul portale Cohesion Data della Commissione europea stando ai quali l’Italia è penultima in Europa.
Tornando al Pnrr, che come evidente da questi numeri è solo una piccola parte del problema della scarsa capacità di spesa italiana, il Def conferma i contenuti delle ultime Nadef: la spesa è rinviata al futuro, quando dovrebbero essere recuperati i ritardi accumulati finora. La previsione relativa alle risorse del Dispositivo per la ripresa e la resilienza (Recovery and Resilience Facility, il “cuore” del Piano) è che contribuirà “in maniera decisiva al sostegno della spesa per investimenti fissi
lordi della Pa soprattutto dal 2024 in poi”. Se nel 2022 gli investimenti finanziati con le risorse del RRF sono stati pari a circa lo 0,2% del Pil, secondo il governo “nel 2025 raggiungeranno il picco dell’1,8 per cento (poco meno della metà degli investimenti totali della pa)”. Una scommessa non da poco a fronte delle sempre più evidenti difficoltà amministrative degli enti attuatori. L’esecutivo ritiene che le stabilizzazioni di funzionari assunti a termine previste dall’ultimo decreto Pnrr saranno sufficienti per superare lo stallo, anche se in molti casi le strutture si sono già svuotate e non è chiaro come si intenda rimediare.
Fitto è convinto come è noto che l’unica via di uscita, a questo punto, consista nell’ottenere da Bruxelles il via libera a un sistema di vasi comunicanti per cui i progetti del Pnrr non realizzabili entro il 2026 verrebbero trasferiti sotto il cappello dei fondi di coesione che scadono nel 2029. Il documento allegato al Def spiega che “l’introduzione del capitolo aggiuntivo Pnrr relativo al REPowerEU“, il piano per ridurre la dipendenza europea dai combustibili fossili russi, “rappresenta l’opportunità per avviare il necessario allineamento dei quadri programmatori” e “razionalizzare il quadro complessivo degli interventi attuativi delle due cornici programmatiche”. Anche perché il regolamento del REPower entrato in vigore l’1 marzo consente di usare le risorse della programmazione 2014-20 per finanziare misure eccezionali per supportare famiglie e pmi colpite dall’aumento dei prezzi energetici. La Commissione ha invitato gli Stati membri a presentare i loro capitoli entro fine aprile, come ha ribadito venerdì dal commissario agli Affari economici Paolo Gentiloni aggiungendo che “sarebbe utile e ragionevole che entro quella data vengano presentate richieste di modifica su altri capitoli in parallelo”.
L’Italia può presentare un capitolo da 2,7 miliardi a valere sui fondi Ets più il 7,5% delle risorse della coesione. Nella sua relazione, che risale a febbraio, Fitto scrive appunto che “entro il 30 aprile occorre presentare alla Commissione europea la proposta di Pnrr integrato con il capitolo dedicato”. La sottosegretaria alla presidenza del Consiglio Matilde Siracusano, rispondendo a un’interpellanza del Pd alla Camera, ha però fatto sapere che non c’è fretta: “L’unico termine da osservare è costituito dalla data del 31 agosto 2023 come indicato nella successiva Comunicazione della Commissione”. Poco dopo Palazzo Chigi ha fatto sapere che il 20 aprile è convocata la cabina di regia Pnrr, presenti anche le parti sociali, per proseguire “il confronto serrato tra il Governo e il partenariato economico e sociale per l’introduzione nel Piano del capitolo REPower”.