Con l’usuale proporzione inversa di qualità tra istituzioni e società civile, a cui siamo ormai abituati da trent’anni, proprio nel momento in cui dal governo si minacciano risibili, iperboliche e inapplicabili multe per chi utilizza espressioni straniere, nel dibattito culturale si distinguono voci competenti e sensibili, in grado di cogliere il fermento vivente delle trasformazioni sociali. Premessa: ho in profondo disgusto l’uso ridondante e velleitario di espressioni straniere, soprattutto anglofone, come, per intenderci, da stereotipo di riunione aziendale meneghina; allo stesso modo, trovo egualmente rivoltante e grottesco il rifugiarsi, da parte di certi pseudo-filosofi, in un lessico forzatamente arcaico da Istituto Luce. Bisogna distinguere tra le comprensibili lamentazioni del compianto profeta dell’Inattuale Guido Ceronetti e il berciare indegno di certi tristi figuri.

La lingua è viva e in perenne divenire, il gusto e il discernimento dovrebbero essere, invece, qualità innate: basterebbe questo per risolvere il nodo drammatico del dibattito culturale contemporaneo, tra una destra che maschera di buon senso la propria miseria intellettuale e una “sinistra” a cui non rimangono altre che etichette auto-ghettizzanti e indignazione a comando per colmare il vuoto di valori, idee, identità che l’ha inghiottita da più di dieci anni. Per fortuna, ogni tanto si incontrano figure, libri, progetti degni di profonda attenzione: è il caso di Tiziana De Rogatis e del suo prezioso saggio Homing / Ritrovarsi. Traumi e translinguismi delle migrazioni in Morante, Hoffman, Kristof, Scego e Lahiri (Edizioni Unistrasi).

Il testo di De Rogatis (professoressa associata di Letteratura italiana contemporanea presso l’Università per Stranieri di Siena e in precedenza autrice di saggi su Montale, T. S. Eliot, Lady Macbeth, Kym Ragusa ed Elena Ferrante) affronta il tema, di cruciale attualità, del translinguismo in cinque autrici, differenti per approccio, ispirazione e origine.

Come spiegato, con la limpida nettezza argomentativa che è la cifra distintiva dell’autrice, in apertura del testo: “Homing è una parola della lingua inglese che definisce la capacità di ritrovare la rotta verso casa da distanze più o meno considerevoli (…) Estendendo il significato della parola, nei contesti postcoloniali e migratori il termine homing viene usato per definire il ritrovarsi: il fare casa al di là della casa originaria (…) l’idea di casa e dunque di appartenenza va ricostruita – e /in parte anche inventata. Si tratta di una condizione sempre più diffusa, se si considera che negli ultimi dieci anni il numero dei profughi nel mondo è più che raddoppiato (…) Pur nascendo dal trauma (nel suo etimo greco: lacerazione, ferita), dal dolore e dalla nostalgia delle migrazioni, l’homing innesta questa origine nella rotta vitale delle esistenze. Partendo da questa esperienza simultanea di vulnerabilità e di creatività, le celebrazioni euforiche dello sradicamento sono fuorvianti quanto il loro opposto, l’integralismo delle radici e il culto della loro purezza”.

Lo sguardo, trasversale e profondamente empatico, sulle autrici scelte per questo tipo di analisi mostra una prospettiva chiara: “La scrittura translingue postcoloniale rende il più possibile familiare una lingua in certa misura estranea, perché storicamente padronale e nemica. E tuttavia, proprio perché una parte di quella lingua rimarrà anche straniera, questa familiarità va continuamente negoziata, aperta a nuove istanze, ritradotta, rinnovata”.

Il pregio, raro, di De Rogatis è quello di testimoniare il trauma senza vittimismi, di studiare la diversità culturale con rispetto senza stolti appiattimenti, di essere genuinamente solidale senza ipocrisie, di essere lucida e rigorosa senza irrigidimenti ideologici: “Guardare ai testi da tutti questi punti di vista non è un atto politicamente corretto, un paternalismo o maternalismo ideologico (…) Il mio intento è quello di aiutare a ripensare attraverso queste opere il concetto stesso di estetica della nostra contemporaneità, estendendolo a poetiche, opere e composizioni di mondi narrativi che finora sono stati esclusi da questo riconoscimento”.

Un testo non solo interessante, ma esemplare per metodo, in grado di mostrare come si possa portare avanti un discorso culturale non reazionario con consapevolezza e competenza, senza cadere in formule trite e nelle trappole innescate da un dibattito pubblico sempre più deprimente.

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