La sentenza della Cassazione sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra sarà emessa il 27 aprile prossimo. Lo hanno comunicato i giudici della sesta sezione penale, al termine degli interventi della procura generale, delle difese e delle parti civili. Considerato tra i fascicoli più complessi arrivati davanti alla Suprema corte, il collegio di giudici ha deciso di differire la decisione sul procedimento di ben tredici giorni. Nell’udienza di oggi la procura generale ha chiesto un nuovo processo d’appello per i tre carabinieri del Ros e per i due mafiosi condannati in secondo grado. Per Marcello Dell’Utri è stata chiesta la conferma dell’assoluzione.
Il patto, le assoluzioni e il reato: la vicenda – La vicenda riguarda la cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, in cui gli allora vertici del Ros dei carabinieri sono imputati insieme ai vertici mafiosi per violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato. L’accusa è di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni la minaccia di Cosa nostra: un alleggerimento delle condizioni carcerarie in cambio dello stop alle stragi che nel 1992 e 1993 insanguinarono l’Italia. All’esame della sesta sezione penale c’è la sentenza di 2.791 pagine emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 ha ribaltato la decisione di primo grado assolvendo “per non aver commesso il fatto” l’ex senatore Dell’Utri e “perché il fatto non costituisce reato” gli ex generali del Ros dei Carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni e l’ufficiale Giuseppe De Donno. Rispetto al primo grado erano state confermate solo le condanne al boss corleonese Leoluca Bagarella (ridotta da 28 a 27 anni) e quella al medico Antonino Cinà (12 anni). La sentenza è stata impugnata dalla Procura generale di Palermo, che ne ha chiesto l’annullamento: per la procuratrice generale Lia Sava e i sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera “la Corte di Assise di appello ha contraddittoriamente ed illogicamente assolto Subranni, Mori e De Donno”. Per quanto riguarda Dell’Utri, invece, “non è dato comprendere perché si sia tenuto per sé il messaggio ricattatorio dei vertici mafiosi non riportandolo al destinatario finale, che era colui per il quale si era interessato per la tessitura di un accordo elettorale”.
Le richieste dei pg – Una posizione condivisa solo in minima parte dall’avvocato generale Pasquale Fimiani e dai sostituti pg Pietro Molino e Tomaso Epidendio, che hanno accolto in parte il ricorso di Mori e De Donno: i due militari chiedevano un’assoluzione con formula piena (“perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”) e non più soltanto “perché il fatto non costituisce reato“. I tre pm hanno dunque chiesto “l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi” nei confronti dei due generali e “con effetto estensivo anche al non ricorrente Antonio Subranni“. Chiesta invece la conferma dell’assoluzione per Dell’Utri, storico braccio destro di Silvio Berlusconi.
La tesi: “Ricostruzione congetturale” – Secondo la Procura generale, i fatti storici non sono dimostrati “oltre ogni ragionevole dubbio“: “a questa esigenza di certezza processuale, la sentenza fornisce una risposta non conforme al diritto e difettosa sul piano motivazionale”, perché “descrive la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo, e lo fa solo in modo congetturale”. In particolare, secondo i sostituti pg, “manca di indicare il preciso contenuto delle richieste” rivolte da Cosa nostra a Giovanni Conso, ministro di Grazia e giustizia nei governi Amato e Ciampi: solo conoscendo quel contenuto, argomentano i magistrati, si sarebbero potute fare “valutazioni di merito essenziali per sostenere logicamente le conclusioni sull’integrazione del delitto”, valutazioni “che non risultano effettuate nella sentenza impugnata”. Secondo la ricostruzione della procura di Palermo, nel novembre del 1993 l’ex guardasigilli Conso decise di far decadere oltre trecento provvedimenti di 41bis per altrettanti detenuti mafiosi proprio in relazione alla minaccia proveniente da Cosa nostra con le stragi di Firenze, Roma e Milano, tra il maggio e il luglio dello stesso anno. “Risulta decisivo stabilire cosa sia stato detto precisamente al ministro e in che modo gli sia stato rappresentato – hanno sostenuto Fimiani, Molino ed Epidendio – posto che un conto è essere stato messo a conoscenza di una spaccatura all’interno di Cosa nostra che abbia determinato il ministro ad assumere autonomamente una iniziativa del genere (che non configura di per sé la minaccia qualificata nei termini che si sono ampiamente ricostruiti in memoria) nella speranza di interrompere la stagione delle stragi, altro è rappresentare al ministro stesso che Cosa nostra si era dimostrata disponibile ad interrompere l’azione stragista e di aggressione ad esponenti di spicco della politica e della magistratura italiana in caso di segnali di distensione quali appunto la mancata proroga di un cospicuo numero di provvedimenti ex articolo 41-bis adottati nei confronti di appartenenti alla mafia”.