Cultura

Cosa resterà di questi anni Ottanta? Ce lo racconta bene la Bohème di Puccini in scena a Milano con VoceallOpera

di Diego Pretini

Mancano così tanto gli anni Ottanta: spuntano di qua e di là, nelle mode del vestirsi, nelle serie tv (Stranger Things), nella musica pop e da ballo (The Weeknd, Harry Styles e le decine di cover e campionamenti nelle hit degli ultimi anni). Cosa resterà di quegli anni Ottanta per riaffiorare così tanto nell’immaginario di questi ultimi anni? Forse perché è stato un decennio della ricerca a perdifiato del piacere, del divertimento, della leggerezza, dell’effervescenza. Visto da qui un decennio perfetto per vivere la gioventù, l’età in cui tutto sembra possibile, fino all’ultimo respiro, in cui il tempo scorre lentissimo e sempre lì a completa disposizione e l’avvenire appare sterminato: niente di “più eterno”. Ma anche “anni bucati e distratti, noi vittime di noi” come scandiva Raf nella canzone uscita nell’ultimo anno di quel mirabolante decennio pieno di neon fluo, bizzarrie addosso e tra i capelli e rivoluzioni in nome della libertà che spingevano sempre al limite. Per tutto questo appare un colpo da maestro quello del regista Gianmaria Aliverta di traslare di 150 anni il set della Bohème, nella nuova produzione della sua VoceallOpera, la cui seconda recita milanese è in programma domenica alle 16 allo SpazioTeatro89.

Il capolavoro di Giacomo Puccini negli anni Ottanta del Novecento, anziché negli anni Trenta dell’Ottocento, sembra starci come un guanto. A beneficio di chi non la conoscesse la storia è – all’osso – quella di un gruppo di giovani pieni di sogni e poesia e privi di soldi, che vivono in catapecchie, non mettono insieme il pranzo con la cena e reagiscono alla miseria andando per locali. Si vogliono tantissimo bene, sono una compagnia quasi inseparabile, le coppie di innamorati si prendono e si mollano, e tradiscono e litigano e si riamano daccapo. Ma una di loro si ammala e muore, un lento declino fino all’ultimo respiro. L’indizio c’è fin da subito: Mimì ha sempre le mani fredde, per antonomasia (Che gelida manina se la lasci riscaldar). Ma, si sa, mani fredde cuore caldo: i ragazzi ci passano sopra, non vogliono vedere, forse non possono vedere forse proprio perché hanno gli occhi dei giovani. La vita è piena di gioia; la malattia, il dolore, la morte circostanze che non sfiorano nemmeno la loro mente.

Aliverta (insieme alle scene di Francesca Donati e i costumi di Matteo Corsi) trasforma tutto questo con acribia in quel decennio controverso: dagli spinelli fumati dai quattro scalcagnati perdigiorno dai quali comincia il primo atto alle converse di Rodolfo (l’innamorato di Mimì) e di Marcello (il di lui amico) alla radio a spalla e la cresta punk di Schaunard, un altro dei quattro che fa (vorrebbe fare) il musicista. C’è uno uso sapientissimo dell’alternanza dei toni e delle atmosfere, anche in un’opera che è oppressa – per tutti i quattro atti – da quella fine straziante e annunciata, che ricorda i protagonisti degli horror quando aprono quella porta.

Così, appena può, Aliverta non rinuncia ai suoi tocchi caratterizzanti: il cafè Momus – dove vanno a gozzovigliare i quattro scalcagnati con Mimì – diventa un Burghy pieno di paninari vestiti in quel modo osceno e lì, durante il baccano che da libretto è legato al passaggio della banda militare, il regista fa spuntare dalla folla – sottoforma del venditore di giocattoli Parpignol – Pennywise, cioè il pagliaccio raccapricciante di It con tanto di palloncino e ghigno schifoso (a piagnucolare Vo’ la tromba, il cavallin! è naturalmente una bambina con impermeabile giallo). E ancora, in un momento in cui i quattro sciamannati si ritrovano a ballare in casa (dopo che sanno già che Mimì è malata: la solita reazione di negare le cose brutte della vita), il libretto direbbe “quadriglia” ma loro si muovono un po’ come la Raffa nel Tuca Tuca, un po’ come Lorella Cuccarini su La notte vola, un po’ come Michael Jackson in Thriller. Poco dopo il male che credono di poter lasciare fuori dalla porta e dalla vita piomba sulle gambe di Musetta che avvisa che c’è lì fuori Mimì che tossisce questo mondo e quell’altro, praticamente moribonda.

Questa Bohème non nega alcuna delle contraddizioni dei “magnifici anni Ottanta”. Per esempio ripensando anche la barriera d’Enfer: è quella periferia di Parigi in cui Puccini mette in scena un drammatico dialogo in cui Rodolfo dice all’amico Marcello che vuole lasciare Mimì perché in pratica non ha il coraggio di vederla morire. Qui la barriera d’Enfer si trasforma in una mensa per i poveri: sono gli anni Ottanta quelli della ricerca del divertimento sfrenato, del lusso a perdita d’occhio, della botta di culo che vale una vita e della promessa eterna di uno sfavillante West che però non arriva quasi mai. Quegli stessi anni spesso rendono indietro solo una delusione, una scottatura, una vita di sacrifici ed è sufficiente qualche attimo per essere spinti nel baratro della miseria da vivere sotto le logge delle grandi banche del finanzcapitalismo che ha imparato ormai da tempo a fare i soldi coi soldi.

Aliverta ha modo di ritoccare con garbo anche la scena finale cioè dopo il doppio disperato Mimì urlato da Rodolfo quando capisce che la poveretta ha reso l’anima al Padre: di solito lo zoom è portato su di lui, annichilito dal dolore, che guarda basito e rintontito il corpo esanime del suo amore o ancora (peggio) lui che si lancia in ginocchio sul cadavere ancora caldo provando così a elaborare il lutto mentre tutti gli altri (Marcello, Musetta, Schaunard) lo guardano contriti e piangenti. Qui invece, in scena insieme a Mimì abbattuta definitivamente dal male dentro un divano sdrucito,tutti fuggono e resta solo Schaunard che non ha molte battute da cantare al quale però Aliverta sembra affidare il ruolo di quello che ha “capito tutto”: non è solo il primo a realizzare che la morente non sta dormendo (e questo già glielo fa fare il compositore lucchese) ma anche (soprattutto) che niente sarà più come prima. Rodolfo da parte sua sì è disperato, fino ai singhiozzi, col cuore spezzato ed è perfino fuggito dalla stanza perché proprio non ce la fa. Ma la vera epifania ce l’ha Schaunard: non è morta solo una sua amica, scopre tutto un botto che la gioventù assomiglia a un inganno che dura una manciata di anni, che è bello e giusto godersela sì, ma lo scandalo è che non dura per sempre. Già prima che la povera Mimì – mentre Rodolfo ancora ci spera (forse più per sé che per la sua amata), e Musetta lo consola in modo infantile dicendogli che secondo lei no, non è grave – Schaunard perde improvvisamente tutta la sua energia, come il crollo di una diga in piedi da cent’anni. Frana in ginocchio, piega la testa in un pianto sfrenato, resta accanto al divano su cui è adagiata Mimì appollottolato e tremante, come in una crisi d’astinenza da tossicodipendenza. Qui l’astinenza pare data una volta e per tutte dalla fine dell’età dell’innocenza.

La Bohème di VoceallOpera (con la direzione d’orchestra di Marco Alibrando) è tagliente come una lama di rasoio. E l’associazione milanese come al solito fa da incubatrice per talenti del futuro. I protagonisti Giuseppe Infantino (Rodolfo) e Alessia Panza (Mimì) – 29 anni lui, 25 lei – sono dotati di una mirabile espressività che si traduce nell’innamoramento un po’ imbarazzato e goffo nel buio della soffitta, nel panico di lui quando sa di non poter gestire una cosa così grande come la lenta morte dell’amata, nello sguardo sfinito di lei per la malattia che la consuma. E poi davvero tutti i comprimari, in particolare l’energia di Marcello di Alfonso Michele Ciulla e l’intensità dello Schaunard punk di Francesco Bossi.

Info
La Bohème | Opera in quattro quadri
Musica | Giacomo Puccini
Libretto | Giuseppe Giacosa e Luigi Illica

Quando | 16.4.23
Dove | SpazioTeatro89, via Fratelli Zoia 89 – Milano
Produzione | VoceallOpera in coproduzione con Orchestra Senzaspine
Biglietti | Mailticket (recita link 16 aprile)
Contatti | SpazioTeatro89: prenotazioni@spazioteatro89.org – 02 40914901
Web | www.voceallopera.com
Social | Fb VoceAllOperaIg voce_allopera

Regia | Gianmaria Aliverta
Scene | Francesca Donati
Costumi | Matteo Corsi
Direzione d’orchestra | Marco Alibrando (14.4) e Nicolò Jacopo Suppa (16.4)
Orchestra | Orchestra SenzaSpine di Bologna

Cast
Alessia Panza (14.4) e Francesca Manzo* (16.4) | Mimì
Giuseppe Infantino* | Rodolfo
Rocio Faus* | Musetta
Alfonso Michele Ciulla | Marcello
Francesco Bossi* | Schaunard
Yuri Guerra | Colline
Luca Gallo | Benoît /Alcindoro
Massimo Pilloni | venditore ambulante
*vincitori del concorso lirico internazionale Giancarlo Aliverta

Collaborazioni | Coro delle voci bianche del Teatro Comunale di Bologna (direzione del maestro Alhambra Superchi) e Coro di VoceAllOpera (direzione del maestro Giacomo Mutigli)

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