di Savino Balzano
Francamente mi è dispiaciuto molto ieri sera realizzare il fatto che Non è l’arena non andasse in onda: penso non sia mai una buona notizia la brutale interruzione di un racconto, soprattutto quanto i temi trattati e sollevati sono oggettivamente scomodi.
La vicenda di Massimo Giletti consente di fare una rapidissima riflessione circa la condizione, per come la vedo io miserrima, nella quale versa il giornalismo di questo Paese. Ci vantiamo di essere democratici, civili, evoluti: la verità è che ogni qualvolta una voce prova a discostarsi dal racconto di massa, dalla propaganda di regime del politicamente corretto, una certa nomenclatura comincia a sbracciarsi, affannosamente, nel tentativo di rappresentare i disobbedienti come populisti, qualunquisti, violenti, vichinghi all’assalto di Capitol Hill.
Lo abbiamo visto durante la crisi sanitaria, col mondo artatamente diviso tra gente civile e bercianti no-vax; durante i mesi del governo di San Draghi, durante il quale gli stessi giornalisti che oggi urlano all’autoritarismo meloniano si spellavano le mani per applaudire il capo del governo, piuttosto che rivolgergli delle domande; lo vediamo durante la crisi internazionale, oggi, mentre ogni voce dissidente (anche quella di Francesco) diventa putiniana.
Personalmente penso che il giornalismo italiano in questa fase si divida in due grandi categorie: quello che racconta i fatti e quello che crea i fatti. Il primo si muove in pendente salita, affannato, percorrendo sentieri stretti e irti di ostacoli. Il secondo prolifica, come la gramigna.
Durante una Festa dell’Unità, a Bologna, circa una settimana prima delle ultime elezioni politiche, una ragazzina di 15 anni è stata brutalmente stuprata da un branco, filmata e irrisa. Sul fatto un silenzio assordante durato 200 giorni. Finalmente la notizia, riportata da poche testate, è venuta timidamente alla luce e francamente, ingenuo, mi aspettavo uno scandalo: ho ripensato a tutte le polemiche sollevate in occasione del raduno di quegli alpini a Rimini o ai tg che ossessivamente ci raccontavano di quella brutta storia che coinvolse il figlio di Beppe Grillo. Ho pensato a tutti quelli che nel Pd impongono il “tutte e tutti”, quei ridicoli asterischi alla fine delle parole per privarle del genere e altre carnevalate che nulla hanno a che vedere con la tutela delle donne che ogni giorno soffrono (a causa delle riforme del Pd come il Jobs act) sui luoghi di lavoro. La mente anche alle intellettuali che periodicamente ci fanno la paternale, appunto, sul patriarcato e su altre amenità. Il risultato? Un silenzio assordante, da far sanguinare le orecchie. E qui la rilevanza politica sarebbe enorme: non solo per il fatto che lo stupro sia avvenuto alla festa del Pd, ma anche e soprattutto per la scelta deliberata del partito di tenere la bocca chiusa sulla vicenda: persino la prima Segretaria non ha nulla da dire. Nessuno ne parla, una vergogna nazionale forzatamente nascosta sotto il tappeto.
E torno con la memoria a quelle settimane precedenti alle elezioni, come pure alle settimane precedenti alle ultime amministrative, e penso ai temi all’ordine del giorno nella discussione pubblica imposti da certe trasmissioni televisive: inchieste su inchieste sul fascismo e sul grave pericolo fascista, imminente più che incombente, che questo governo rappresenterebbe. Giornalisti che col volto contrito denunciavano l’arrivo delle squadracce al potere, facendo da utili sciocchi il gioco di Meloni che altro non desidera se non spostare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle gravi mancanze di questo esecutivo in politica economica.
C’è dunque un giornalismo che parla di fatti: credo che Giletti ne fosse un esponente, con i ragazzi che lavoravano con lui (credo adesso a spasso), spesso deriso e sbertucciato (lo fa Parenzo quasi ogni giorno sfottendo Giordano, Del Debbio, Porro, Cruciani) e può piacere o non piacere la chiave interpretativa che di quei fatti viene fornita, ma si tratta pur sempre di fatti, come quelli raccontati da Report o da Presa Diretta. E poi c’è un giornalismo che corre in discesa, quello che crea i fatti, che concorre a imbastire e ricamare la trama della narrazione dominante, gerarca della dittatura del politicamente corretto, ossessivo e ferocemente antidemocratico.
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