Due terzi del pianeta sono coperti d’acqua, e gran parte di questo spazio non è soggetto a un governo. In questo regno vengono spesso commessi crimini contro i diritti umani e l’ambiente, e restano impuniti, perché gli oceani sono estesi e le leggi che esistono sono difficili da far valere.
Parte del problema, tuttavia, è nelle nostre teste. Gli oceani sono visti tipicamente, e correttamente, come un habitat naturale. Ma sono molto più di questo.
Sono un luogo di lavoro, una metafora, una fuga, una prigione, un emporio alimentare, un bidone dei rifiuti, un cimitero, una cuccagna, un organo, un’autostrada, un deposito e, soprattutto, un’opportunità. Se non riconosciamo questa verità, se non ripensiamo questo dominio in modo più ampio, continueremo a fallire nel governare, proteggere e comprendere gli oceani.
Gli oceani sono un luogo di lavoro. Più di 50 milioni di persone lavorano offshore e molte di queste sono impiegate nella pesca, che è il mestiere più pericoloso del mondo: conta più di 100 mila vittime l’anno, più di 300 al giorno.
Gli oceani sono una metafora. Questo spazio lontano dalla terraferma ha per lungo tempo significato l’infinito, un’abbondanza sui generis, inesauribile, dove la fauna marina si rigenera e si ricostituisce senza fine. Questa percezione spiega perché gli oceani sono stati dati per garantiti per secoli. Se sono così vasti e indistruttibili, se possono ricostituirsi senza limiti, perché prenderci il disturbo di porre un limite a quel che ne estraiamo o a quello che ci buttiamo?
Gli oceani sono una fuga. Per secoli, la vita di mare è stata romaticizzata come estrema espressione di libertà – un rifugio dalla vita sulla terraferma, a debita distanza dalle intromissioni governative, una possibilità di esplorare, di reinventarsi. Da Moby Dick a Ventimila Leghe Sotto i Mari, cacciatori, avventurieri, esploratori, seasteader (persone che vivono su piattaforme galleggianti fuori da acque territoriali, ndr) hanno inseguito questo sogno.
Gli oceani sono una prigione. Ben lontane da essere buna fuga o da una risorsa, per molti lavoratori le navi in mare sono una galera senza sbarre. Ogni anno decine di migliaia di uomini e ragazzi sono comprati e venduti come schiavi, e poi si ritrovano in condizione di completo assoggettamento, a volte per anni, e persino in catene, su vascellii da pesca in acque remote.
Gli oceani sono un emporio alimentare. Più del 50 per cento delle proteine animali che le gente consuma in certe aree del mondo sviluppato vengono da cibo pescato in mare, che è la derrata alimentare più commerciata a livello globale in termini di valore. La pesca industriale oggi è così tecnologicamente avanzata che è diventata più scienza che arte, più un raccolto che una caccia. La conseguenza è che più di un terzo delle riserve mondiali sono sovrasfruttate.
Gli oceani sono un bidone della spazzatura. Per secoli, l’umanità ha guardato agli oceani come a una realtà così vasta da avere un’illimitata capacità di assorbire e metabolizzare ogni cosa, una percezione che ci ha dato la licenza di riversare in mare qualunque cosa. Petrolio, scarichi fognari, residui chimici, rifiuti, ordigni bellici, e persino megastrutture marittime come le piattaforme petrolifere sono scomparse nella profondità dell’oceano, come ingoiate da un buco nero, per non ricomparire mai più.
Gli oceani sono un cimitero. Migliaia di migranti scompaiono ogni anno in mare aperto, molti di loro per esempio nel Mediterraneo, mentre tentano disperatamente la traversata verso l’Europa dai lidi di Libia, Marocco, Tunisia. Quando il mare agitato, o i trafficanti di esseri umani, o la guardia costiera libica fanno ribaltare quegli scafi sovraccarichi, i passeggeri non annegano soltanto. I loro corpi scompaiono in un’oscurità che li nasconde agli occhi del mondo. E così questo ciclo sinistro continua.
Gli oceani sono una cuccagna. È per caso un furto prelevare qualcosa che non è controllata da nessuno da un’area che non appartiene a nessuno? No, viene definita semplicemente “pesca non regolamentata”, che sembra essere la norma nelle acqua internazionali. E il mare ha tanto da offrire oltre al cibo. Trivellatori di gas e petrolio, minatori di fondali, cacciatori di tesori, predatori di relitti, ricercatori biomedici lo sanno benissimo.
Gli oceani sono un organo. Polmoni del globo, gli oceani producono la metà dell’ossigeno che respiriamo. Ma quando bruciamo combustibili fossili ed emettiamo più carbonio nell’atmosfera, una buona parte di questo si dissolve nelle acque soffocandole, uccidendo così il pianeta. Inoltre l’oceano ha già assorbito il 90 per cento dell’eccesso di calore determinato dal riscaldamento globale, e oggi è il 30 per cento più acido di quanto lo fosse prima della Rivoluzione industriale.
Gli oceani sono un’autostrada. Il mare aperto è la linea espressa del commercio mondiale. Nell’attuale economia globalizzata, uno dei motivi per cui più del 70 per cento di prodotti che consumiamo viaggiano per nave è che il mare aperto è nettamente meno gravato da confini e burocrazie.
Gli oceani sono armerie. Solcati da più navi che mai nella storia, gli oceani sono anche più armati e pericolosi. A partire dal 2008, quando i pirati hanno cominciato a operare in fasce marittime sempre più ampie, molte navi mercantili private hanno iniziato a reclutare personale di sicurezza privata, le cui forze hanno rapidamente sopravanzato quelle delle polizie governative.
Gli oceani sono un’opportunità. Gli oceani non sono solo un’oscura suburra, ma rappresentano anche un’occasione di salvezza. I governi saranno in grado di individuare un bene comune al di là dei propri interessi particolari, e di cooperare verso una gestione condivisa del mare aperto? Il recente trattato dell’Onu sulla biodiversità è un passo in questa direzione. Il prossimo banco di prova è vedere se i governi saranno in grado di utilizzare gli oceani per collaborare nella mitigazione della crisi climatica.
Un primo, essenziale passo per affrontare tutti questi problemi è ampliare il nostro pensiero sugli oceani. Dispatches from the Outlaw Ocean è una serie di documentari che offre un viaggio stimolante attraverso questa frontiera incontrollata. Il suo obiettivo è mettere in evidenza l’urgenza e aiutare il pubblico globale a ripensare gli oceani come qualcosa che non dobbiamo prendere per garantito, un bidone dell’immondizia senza fondo, una risorsa che si autorigenera in eterno, che utilizziamo per riempirci lo stomaco o foderarci il portafoglio, ma piuttosto come un vasto habitat che dovremmo lasciare in pace, un luogo di lavoro che necessita di una regolamentazione. Meno emporio alimentare e più biblioteca o cattedrale, un bene comune protetto.