Sono ormai decenni che le istituzioni internazionali organizzano e promuovono summit dei vari capi di stato nazionali con lo scopo di ridurre l’impatto devastante che la società contemporanea ha sugli ecosistemi. Già dal 1992, in cui si tenne la prima “Conference of Parts” (poi abbreviata a Cop, come la conosciamo oggi) a Rio de Janeiro, si era intuito che la traiettoria di un sistema economico basato sulla crescita lineare a ogni costo avrebbe causato trasformazioni planetarie irreversibili. L’obiettivo di questi cicli di conferenze, di cui i più noti esempi sono stati il Protocollo di Kyoto del 1997 e poi gli Accordi di Parigi del 2015, è stato quello di mediare le necessità intrinseche del capitalismo estrattivista con il mantenimento di un ambiente stabile per la vita che lo abita.

A quasi trent’anni di distanza, possiamo dire che questa mediazione ha fallito. Non perché non è riuscita ad accelerare la messa in atto di meccanismi di protezione naturale (gli Accordi di Parigi, il Trattato degli Oceani Profondi e il 30×30 per la biodiversità vanno comunque classificati alla voce successi), ma perché tale mediazione ha perso la bilateralità che rendeva credibili e legittimi questi eventi internazionali. La mediazione, infatti, è mutata in persuasione, temporeggiamento e minimizzazione dei pericoli e degli eventi estremi che i paesi del Sud Globale stanno già affrontando. Un’involuzione del processo per nulla arricchente.

Gli esempi più lampanti dei nuovi squilibri sono, tra gli altri, i più di 600 rappresentanti di aziende fossili che hanno partecipato all’ultima COP27 in Egitto, meta oltretutto spesse volte proibitiva per i rappresentanti del Sud Globale, i quali si sono visti ripetutamente costretti ad abbandonare gli incontri prima che i documenti finali fossero ratificati. In tal modo, i paesi del Nord Globale (Europa e Stati Uniti in primis) hanno avuto più spazio d’azione per negoziare in favore dei propri interessi.

Un altro esempio notevole è il recente trattato sulla biodivesità, in cui l’obiettivo di estendere le aree naturali protette fino a raggiungere il 30% del pianeta è stato deciso senza il consenso delle popolazioni indigene che vi abitano, incentivando gli stati nazionali a deportazioni di massa dalle suddette aree. Al culmine troviamo la prossima COP28, che si terrà negli Emirati Arabi Uniti, presieduta da un emiro i cui investimenti principali sono proprio nell’industria fossile. Il cerchio si chiude.

Sotto l’apparenza multilaterale e paritaria di queste conferenze internazionali si nascondono dunque nuove forme di colonialismo, non violente e brutali come quella dell’imperialismo ottocentesco ma più sottili, burocratiche e tecnocratiche, in cui vengono fissati obiettivi numerici apparentemente oggettivi e scientifici che in realtà celano interessi economici, tesi a favorire gli interessi di solo una piccola parte della comunità internazionale. La più inquinante, per inciso.

Ciò non significa che queste conferenze siano da eliminare tout-court: l’obiettivo dovrebbe essere invece quello di garantire maggiore rappresentanza e accessibilità ai paesi che hanno necessità ed emergenze più dirette. Questo richiede che i paesi del Nord Globale (e tra questi, naturalmente, l’Italia) abbandonino la ricerca del profitto a ogni costo, soprattutto perché il costo viene sottilmente scaricato su chi ha meno responsabilità.

Per affrontare questo tema e le sue possibili soluzioni, Extinction Rebellion ha organizzato un incontro con due esperti di politiche ecoclimatiche, Stefano Caserini di Italian Climate Network, docente di mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, e Irene Delfanti del Center for World Indigenous Studies, trasmesso sui canali di YouTube e Facebook di XR Italia il 19 aprile alle ore 20:30.

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