Il volumetto edito da Feltrinelli (184 pagine per 33 racconti) sguscia tra lunghezze brevissime (12 righe) e distanze espanse (24 pagine) mantenendo un peso specifico eguale in termini di spunti creativi e di dinamicità d’esecuzione
Capita raramente, ma vivaddio se capita, che uno scrittore “non professionista” abbia stoffa, talento, respiro, più degli estemporanei colleghi professionisti. Parliamo di Luigi Lo Cascio – ribadiamolo magari per inconscia piaggeria: il più grande attore italiano da vent’anni a questa parte – e del suo secondo gustoso collage letterario metafisico Storielle per granchi e per scorpioni (Feltrinelli). Uno di quei volumetti (184 pagine per 33 racconti) che sgusciano tra lunghezze brevissime (12 righe) e distanze espanse (24 pagine) mantenendo un peso specifico eguale in termini di spunti creativi e di dinamicità d’esecuzione. Intanto la peculiarità del volumetto sta proprio nell’apertura di questo “ventaglio di possibilità narrative a tutti i regni: animale, vegetale, minerale con l’aggiunta del mirabile spettrale”. Quindi troverete dal racconto robusto e introduttivo della mosca che sembra aver inghiottito un divano e per questo viene punita sadicamente dal proprietario del divano medesimo, al rapido incontro con un microbo che collabora con il suo anticorpo per raggiungere obiettivi insperati di futuro, fino ad un mirabile intreccio tra un pastore poeta innamorato di una silente e riguardosa capra che sognava la Luna.
Un saltellio poetico e aggraziato, un fluire sintattico rotondo e ricercato, con i suoi riccioli bernhardiani, l’immaterialità fantastica borgesiana, cenni eleganti da Le Labrene di Landolfi. Mai e poi mai Lo Cascio cerca il gridolino, l’ammiccamento, la carineria, anzi tutto il contrario: cerca (e trova) la strada più impervia di una sfrenata e naturale ricchezza lessicale, dell’aggrottarsi e deformarsi del senso umoristico (“le ceneri si diedero appuntamento fuori dalle urne”), della sognante felicità del paradosso intellettivo. Con una teatralità testuale che spesso si palesa in controluce come martello e chiodo ritmico, soprattutto in chiave dialogica – il dialogo spassoso tra lo scorpione e il granchio sì, ma anche il siparietto esilarante di Due ore dopo o il breve apologo sul pensiero che vuole sovrastare la parola – o più in generale dal risultato della dialettica del contrasto tra due opposti anche quando l’io si fa sovrastante (l’ultimo racconto con un uomo che perde pezzi di viso) specchiandosi in un misterioso altrui.
Quando poi nell’ultima decina di racconti Lo Cascio sembra come perdersi a sua volta in una spirale di fissazioni idiosincratiche iperumane, dimenticando un poco l’alterità della sorpresa animale-vegetal-spettrale, ecco che è come mettesse ulteriormente a nudo, rigo dopo rigo, lo scheletro di un desiderio letterario incombente e volontariamente non concludente che trova nella sospensione più che nel punto, nell’oscillazione più che nell’inerzia, una propria inorganica fascinosa costruzione filosofica tout court, oltre il ragionevole dubbio dell’attore prestato alla letteratura.