Uno degli aspetti più singolari e negativi del capitalismo finanziario contemporaneo è il riacquisto di azioni proprie da parte delle grandi società per azioni, chiamato nel gergo finanziario buy-back. L’acquisto di azioni proprie è un modo del tutto nuovo, quasi una moda finanziaria, per trasferire risorse aggiuntive agli azionisti; l’altro modo, quello normale, consiste nel distribuire i dividendi. Uno spostamento degli utili dai dividendi al riacquisto di azioni proprie è molto conveniente per gli azionisti perché produce in maniera automatica un aumento del valore delle azioni. Infatti riducendo il loro numero si accresce l’utile per azione, che è uno dei criteri chiavi per determinare il successo di borsa un’impresa. In definitiva, il riacquisto di azioni proprie fa contenti gli azionisti perché rivaluta le azioni, ma anche i top-manager perché possono rivendicare attraverso l’andamento di borsa il buon andamento della gestione economica della società.
Naturalmente riduce le risorse per gli investimenti futuri e impedisce la diminuzione dei prezzi dei beni e servizi prodotti per i consumatori. In generale, non è una buona mossa e il riacquisto andrebbe utilizzato con parsimonia solo in casi eccezionali.
Invece, negli ultimi anni questa pratica finanziaria si è molto diffusa soprattutto nel settore dei servizi bancari e assicurativi. Recentemente alcune banche (Unicredit per un valore di 3,4 miliardi) e società assicuratrici (Generali per 500 milioni) hanno varato programmi inusuali di riacquisto di azioni proprie. Questa prassi si è estesa anche alle società energetiche i cui profitti sono stati gonfiati dal conflitto bellico in corso. Eni, per esempio, ha lanciato per il 2022 un riacquisto di azioni per 2,2 miliardi di euro che può essere portato a 3,5 miliardi. Per avere un riscontro quantitativo, la tassa sui profitti del governo Draghi prospettava un introito di circa due miliardi.
Ma cosa accade se questo comportamento viene steso anche alle imprese industriali? E il caso ad esempio di Stellantis, la società nata dalla fusione di Fiat e del gruppo PSA, che ha varato un piano di riacquisti di azioni per 1,4 miliardi di euro. Tempo fa il top-manager Carlos Tavares, temendo gli effetti della transizione energetica per il settore delle auto, aveva richiesto un consistente incremento del sussidio pubblico per abbassarne il prezzo. A suo dire, senza un sostanzioso contributo statale il passaggio all’auto elettrica avrebbe messo in crisi i conti della società. Non sarebbe poi stato nemmeno equo, sempre secondo la sua visione, perché avrebbe riservato l’auto elettrica, più costosa, solo ai ceti benestanti.
Le pessimistiche previsioni aziendali non si sono per fortuna verificate. Invece, è accaduto esattamente l’opposto. I conti di Stellantis non sono mai andati così bene come nel 2022. La società ha chiuso l’anno con risultati record: un utile netto pari a 16,8 miliardi, in aumento del 26% rispetto all’anno precedente. I ricavi netti hanno raggiunto i 179,6 miliardi di euro, in crescita del 18% grazie ai prezzi netti favorevoli, al miglior mix modelli e agli effetti positivi dei cambi di conversione, come si legge nel comunicato aziendale. Quindi la riconversione verso l’auto elettrica non dovrebbe far paura ad un gruppo così solido.
Come sono stati ripartiti gli utili? Apparentemente in maniera molto democratica. Agli azionisti, sotto forma di distribuzione degli utili, sono andati 4,2 miliardi, corrispondenti a 1,34 euro per azione. Un rendimento eccezionale dato il basso valore delle azioni. Una seconda quota è stata assegnata alle maestranze per circa due miliardi di euro. I lavoratori italiani riceveranno grosso modo quasi una mensilità, erogata sotto forma di bonus e non di stabile incremento salariale. Infine, la parte rimanente sarà destinata al riacquisto di azioni per 1,5 miliardi di euro. Quindi, in primo luogo sono stati premiati gli azionisti, coloro che hanno prestato il capitale. E poi, in parti eguali i lavoratori e ancora gli azionisti che hanno ricevuto a questo punto una doppia remunerazione: una diretta, con il corposo utile, e una indiretta, ma altrettanto consistente, attraverso la rivalutazione delle azioni via buy-back. Poi, per gli azionisti c’è un ulteriore conforto fiscale dal momento che la tassazione sull’incremento del valore delle azioni è soggetta solo alla tassa piatta del 26%. Il capitalismo finanziario premia sé stesso con una aliquota appena superiore a quella minima dell’Irpef del 23%.
Quindi, nella pratica, vengono premiati due volte gli azionisti e si offre un bonus temporaneo a chi realmente produce i beni che fanno il successo dell’impresa, i lavoratori. Questa attitudine del capitalismo contemporaneo ad essere molto generoso con gli azionisti, e molto meno con i lavoratori ed i consumatori, apre due tipi di problemi.
Il primo, veramente singolare, è che ai lavoratori non viene riconosciuto un duraturo aumento di stipendio ma solo un bonus che ci può essere oppure no, a seconda dell’andamento dei conti aziendali. I lavoratori dovrebbero essere contenti perché sono trattati esattamente come i dirigenti, cioè ricevono di più se riescono ad essere più produttivi. Questa trasformazione del salario non è però molto positiva perché il bonus è solo momentaneo e inoltre non porterà alcun aumento alla pensione futura. Insomma, con il sistema del bonus l’impresa si tiene le mani libere sul futuro.
Il secondo problema è per quale ragione Stellantis non abbia avvantaggiato anche i consumatori di questa congiuntura favorevole con una robusta riduzione dei prezzi delle auto, quelle elettriche in primo luogo. Invece di compensare ulteriormente gli azionisti, già ben pagati, la dirigenza aziendale poteva decidere di tagliare i listini, come ha fatto Tesla ad esempio, senza chiedere ulteriori sussidi statali. Siamo all’assurdo che i necessari sussidi pubblici per i consumatori a basso reddito che decidono di acquistare l’auto elettrica vengono regalati agli azionisti sotto forma di buy-back.
Che fare allora di fronte a questi brillanti manager, anche nella loro esagerata remunerazione (con un salario annuale che risulta essere più di 300 volte quello di un dipendente), che mettono l’azionista sopra tutto, a scapito dei lavoratori e dei consumatori? Tocca alla politica, come sempre in questi casi, rimettere le cose a posto. Per esempio, si potrebbe prevedere per legge che chi acquista azioni proprie non possa usufruire di sostegni fiscali per i propri prodotti. Non sarebbe molto, ma di sicuro un passo nella direzione giusta se vogliamo uscire dalla traiettoria socialmente ed economicamente devastante del capitalismo finanziario. Se l’auto elettrica costa troppo, il prezzo non deve essere pagato solo dai lavoratori, dai consumatori e soprattutto dai contribuenti, ma in primo luogo dagli azionisti che in fondo hanno solo prestato il loro risparmio e nulla più.