“Il Financial Fair Play non è equo perché aiuta le grandi”. Così aveva dichiarato a inizio stagione Josè Mourinho commentando la notizia che la Roma era finita nuovamente sotto osservazione della UEFA per il mancato rispetto dei parametri. Affermazione corretta nella forma, molto meno nella sostanza, visto che proprio la sua Roma rappresenta uno degli esempi di quanto sia poco equo il FFP. Perché un club che in tre anni guadagna 600 milioni di euro e spende 1.2 miliardi senza pagare alcuna conseguenza in termini sportivi, cavandosela solamente con ammende economiche, è proprio l’opposto del principio di spese congrue alle proprie possibilità che si trova all’origine del concetto di fair play finanziario. La Roma quest’anno è stata la seconda società, dopo il Paris Saint Germain, a ricevere la sanzione più alta dalla UEFA per mancato rispetto dei parametri finanziari: 5 milioni di euro, più 30 di condizionale. Questo significa che se nei prossimi anni la società non si atterrà al piano di contenimento delle spese presentato sarà costretta a versare questo ulteriore importo. Visti i risultati delle sue ultime gestioni finanziarie, con perdite di 200 milioni all’anno, la sanzione condizionale è quasi certa.
Nella stagione 2021/22 la Roma ha presentato un bilancio che sfiorato il record di perdite nella storia del calcio italiano: 220 milioni di euro. I conti in rosso non sono una novità in casa giallorossa, visto che sono quattordici anni consecutivi che vengono prodotte perdite. Ma nelle stagioni più recenti l’impennata è stata consistente, con 204 milioni nel 2019/20 e 185 nel 2020/21. Si arriva quindi ai 600 milioni dell’ultimo triennio citati poco sopra, per una prestazione degna della Champions League dell’indebitamento, visto che in Europa nel medesimo periodo solo il PSG ha accumulato perdite maggiori, toccando i 700 milioni. Con la differenza che i franco-qatarioti presentano un giro di affari tre volte superiore a quello della Roma. I primi hanno quindi entrate (gonfiate, ma questo è un altro discorso) da società d’elite e spese da club di prima fascia, mentre i giallorossi spendono come una squadra di fascia alta (infatti rientrano nella top 20 europea per uscite) avendo però entrate da Ajax, ovvero da classe media continentale. Il monte stipendi attuale della Roma ammonta a 169 milioni di euro. Quelli delle avversarie che la separano dalla finale di Europa League sono rispettivamente 41 (il Feyenoord avversario dei giallorossi nei quarti), 63 (Bayer Leverkusen) e 5.8 (Union Sint Gillis).
L’esplosione dei costi in casa Roma è presto spiegata. La società è stata sotto osservazione UEFA dal 2015 al 2018, anno in cui sono stati tolti i limiti al mercato imposti per – utilizziamo un termine gentile – scarsa virtuosità finanziaria. La stagione 2017/18 è quella delle semifinali di Champions League, con l’eliminazione contro il Liverpool dopo due semifinali giocate alla pari. Il grande aiuto concesso dalla UEFA alla Serie A aumentando a quattro il numero di squadre qualificate automaticamente per la fase a gironi di Champions ha indotto l’allora dirigenza giallorossa ad alzare l’asticella, incrementando spese e stipendi in prospettiva di una presenza in pianta stabile nella massima competizione europea. Ma questo non è avvenuto e la Roma si è ritrovata con costi salarali superiori al 60-70% rispetto a quelli di club appartenenti alla stessa categoria di fatturato, che nel frattempo è crollato del 42% in un anno a causa della pandemia. Nessuna, tra le altre big di Serie A, ha presentato cifre tanto pessime.
Se i ricavi dallo stadio hanno sempre rappresentato il tallone d’Achille della società, e la situazione – frustrante, e in questo caso il club non ha colpe – non sembra poter cambiare in tempi brevi, l’altra causa del bagno di sangue economico nella capitale deriva dal mercato. Nel triennio 2018-2020 il mercato ha rappresentato per la Roma una fonte importante di reperimento risorse, con cessioni che hanno fruttato tra i 100 e i 150 milioni di euro l’anno. Cifre crollate negli anni successivi, con il cambio di proprietà da James Pallotta al gruppo Friedkin. Nel loro primo anno, i nuovi padroni americani realizzano una grande minusvalenza con la cessione di Schick per 16 milioni in meno di quanto era stato pagato, incassando complessivamente dal player trading meno della metà delle cifre presentate sopra. La stagione successiva il flusso quasi si prosciuga, con soli 16 milioni ricavati dalle cessioni. In più arrivano le risoluzioni contrattuali anticipate con giocatori quali Javier Pastore e Steven Nzonzi a causare ulteriore esborso di denaro in una situazione già complicata.
Sono tre i fattori che hanno giocato a favore della Roma nel periodo analizzato. La pandemia, che ha allentato fortemente i vincoli previsti dal FFP; la battaglia legale persa dalla UEFA contro il Manchester City, che ha revocato la squalifica dalla Champions per gli inglesi costringendo la UEFA a rivedere i propri regolamenti sul fair play finanziario; le tempistiche per l’entrata in vigore di un nuovo sistema di controllo finanziario, che sarà pienamente operativo tra tre anni, con conseguente fase di transizione nella quale rimangono in vigore regole annacquate, depotenziate e scarsamente efficaci. In poche parole, fino alla stagione 2026/27 la Roma potrà andare avanti a fare quello che vuole, perché a causa della mancanza di trasparenza in UEFA non sono chiare le modalità di applicazione di sanzioni sportive quali il blocco del mercato o l’esclusione dalle competizioni europee. E questo discorso vale anche per Inter e Juventus, società pesantemente indebitate che producono perdite di esercizio annuali oscillanti tra i 150 e i 250 milioni. Il calcio italiano dovrebbe accendere un cero alla UEFA.