C’è una poltrona che nessuno pare voglia occupare nelle fila della maggioranza: quella della presidenza della Commissione parlamentare Antimafia.
La Commissione non c’è, pur essendo stata istituita per legge orami un mese fa. L’iter di costituzione infatti prevede che i gruppi parlamentari indichino i propri componenti ai Presidenti di Camera e Senato e ad oggi non tutti i gruppi lo hanno fatto. Ma soprattutto sembra che la maggioranza non trovi l’accordo per la presidenza, il nome che era circolato qualche settimana fa, quello della onorevole Carolina Varchi, non circola più ed al suo posto si sente quello della onorevole Chiara Colosimo, che in comune con la Varchi ha l’appartenenza a Fratelli d’Italia.
Posso immaginare che più del prestigio che deriverebbe da questo ruolo, pesi la preoccupazione di dover poi dare, o decidere di cercare, risposte ad una serie sempre più complessa di questioni, che precipiterebbero sul tavolo della presidenza della Commissione un attimo dopo la sua elezione.
La Commissione infatti, pur non avendo una funzione paragonabile a quella del Copasir (il Comitato parlamentare di controllo sui Servizi di informazione per la sicurezza della Repubblica), rappresenta certamente lo strumento attraverso il quale il Parlamento e quindi il popolo sovrano, testa continuamente lo stato dell’arte nel conflitto mafie-Stato, decidendo volta, volta, cosa approfondire, quali giudizi esprimere, quali politiche proporre, quali segnali dare. E forse, di questi tempi, a qualcuno potrebbe sembrare preferibile, semplicemente, rimandare, rinviare, lasciar andare le cose come vanno, senza metterci né la faccia né le mani.
Facciamo qualche esempio.
L’ultima relazione semestrale della DIA fotografa lo strapotere della ‘Ndrangheta rispetto alle altre consorterie mafiose, con ripercussioni destabilizzanti su economia legale, Enti locali, coesione sociale. Una forza ancora prevalentemente fondata sulla ricchezza prodotta dal narcotraffico internazionale (complimenti alla Guardia di Finanza per l’operazione di sequestro di tonnellate di cocaina galleggianti in mare aperto!). Che fare?
Che fare sul Codice degli appalti, appena entrato in vigore e ribattezzato “Codice Salvini”, che a detta di molti osservatori spalanca le porte agli affari delle mafie, esponendo maggiormente gli amministratori pubblici alle pressioni criminali. Che fare sulle misure di prevenzione amministrativa (come le “interdittive prefettizie” e lo scioglimento dei comuni per infiltrazione mafiosa), o su quelle di prevenzione patrimoniali (sequestri e confische di beni immobili ed aziendali) che in molti vorrebbero liquidare. Che fare sul 41 bis e più generalmente sulla condizione carceraria (i giorni passano e di Raduano, boss della mafia garganica, letteralmente saltato fuori dal carcere di massima sicurezza di Nuoro, non c’è traccia), che finiscono sotto i riflettori ad intermittenza mentre meriterebbero una attenzione sistematica. Che fare sugli strumenti investigativi (le intercettazioni) e sul diritto/dovere di informare l’opinione pubblica, che rischiano di subire nuovi giri di vite, pericolosi.
Un altro esempio? Il caso Giletti (perché è un “caso”): già la Commissione avrebbe dovuto occuparsi della cattura di Matteo Messina Denaro, cogliendo almeno l’occasione per riavvolgere il nastro su trent’anni di latitanza (incrociando fatalmente le traiettorie di personaggi illustri come il potente senatore Antonino D’Alì – di cui si torna incidentalmente a parlare, dopo la sua condanna definitiva per concorso esterno, perché il suo storico e fidato capo di Gabinetto ai tempi del Viminale, il prefetto Valenti, è appena stato nominato dal Governo super Commissario per la “emergenza” sbarchi -, il co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri, o di personaggi che per ragioni di servizio hanno pagato un prezzo alto, come Rino Germanà, Giuseppe Linares, il prefetto Fulvio Sodano) ma la improvvisa sospensione della trasmissione di Giletti da parte dell’editore Urbano Cairo, ha reso tutto ancora più incombente ed ingombrante. Almeno bisognerà liberare il campo dal sospetto che la sospensione del programma sia l’effetto di una vera e propria intimidazione estorsiva.
Ed infine, ultimo esempio, ci sono i “segnali” che vanno dati, perché la forza delle mafie sta anche nella inesauribile capacità simbolica, a cui lo Stato deve saper opporre una altrettanto curata proiezione di segnali alternativi, segnali di vicinanza. Come quello di cui avrebbe bisogno il Liceo scientifico di Partinico che ha deciso di cambiare il proprio nome, adottando quello di “Peppino Impastato” e che dovrà vedersela con il Comune che potrebbe mettersi di traverso. Come quello di cui avrebbero bisogno i famigliari di Giulio Giaccio, assassinato a 26 anni a Pianura, il suo corpo sciolto nell’acido, per uno scambio di persona, che hanno rifiutato il risarcimento proposto dai due presunti colpevoli, killer di camorra.
Ma per dare questo tipo di “segnale” non bastano intelligenza politica e effervescenza social, serve credibilità.