Lavoro, dieci anni fa il crollo del Rana Plaza con le fabbriche tessili: “Alcuni marchi non hanno ancora firmato l’Accordo per la sicurezza”
Era il 24 aprile 2013 quando in Bangladesh, a Savar, il Rana Plaza, un edificio di otto piani che ospitava cinque fabbriche tessili dove si producevano capi d’abbigliamento per diversi grandi marchi occidentali (da Zara a Benetton, passando per Walmart e tanti altri), per il sistema della Fast Fashion, crollò. Persero la vita 1.138 lavoratori del settore tessile, mentre oltre 2500 persone rimasero ferite. Lavoratori che, si sarebbe poi scoperto, erano stati costretti a entrare in un edificio insicuro, sotto il ricatto di perdere lavoro e salario, nonostante soltanto un giorno prima fossero apparse crepe strutturali, e le banche e i negozi dei piani inferiori avessero deciso di chiudere immediatamente.
Nel decennale di quella strage del lavoro, nel corso di un convegno a Roma, organizzato nella sede della Cgil, è stato rilanciato l’appello affinché venga rinnovato l’Accordo Internazionale (in scadenza) che, dopo quel disastro annunciato e non evitato, venne siglato, come ha ricordato Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna ‘Abiti Puliti‘: “Da allora la sicurezza in Bangladesh è migliorata, grazie a questo Accordo per la salute e la sicurezza nell’industria tessile e dell’abbigliamento che prevedeva regole vincolanti, ispezioni indipendenti, meccanismi di reclamo. E ancora messa in sicurezza di circa 1700 fabbriche dove lavorano circa 2 milioni e mezzo di lavoratori. Ma che soprattutto ha dato maggiore potere ai sindacati”.
Un Accordo, rinnovato già due volte e poi esteso di recente anche al Pakistan, che è però in scadenza, nell’ottobre 2023: “Importantissimo che venga rinnovato. Ma non solo. Voglio lanciare l’appello alle imprese che ancora non hanno firmato, e che ancora si sottraggono alla responsabilità di porre sotto un controllo serio ed efficace le aziende della propria catena di fornitura”, è l’appello rilanciato da ‘Abiti Puliti’. “Nella nostra petizione abbiamo definito ‘la sporca dozzina” quelle imprese – Amazon, ASDA, Columbia Sportswear, Decathlon, Ikea, JC Penney, Kontoor Brands (Wrangler, Lee e Rock & Republic), Levi’s, Target, Tom Tailor, URBN (Urban Outfitters, Anthropologie, Free People) e Walmart – e marchi che sin dall’inizio si sono rifiutati di firmare l’accordo vincolante”, ha continuato Lucchetti.
Certo, al di là delle condizioni migliorate, restano non pochi punti critici, a partire dai salari bassissimi e dalla difficoltà di riconoscimento della libertà di associazione per i lavoratori. “Dobbiamo difendere determinate conquiste”, è l’appello rilanciato nel corso della convegno. Ma non solo. Perché, spiegano sia ‘Abiti Puliti’ che la Cgil, “la lezione del Rana Plaza è anche un monito per l’Italia“.
“Le morti e gli incidenti sul lavoro riguardano anche il nostro Paese. Il tema del controllo della filiera, degli appalti e dei subappalti, più tragico in alcuni Paesi del mondo, resta centrale anche da noi”, rivendica Francesca Re David, segretaria confederale Cgil. “Gli ispettorati del lavoro pubblici sono lo strumento principe per vigilare sull’applicazione delle leggi, andrebbero rafforzati, anche in Italia”, aggiunge Lucchetti, “quando invece sono stati appena siglati due protocolli che attribuiscono di fatto ai consulenti del Lavoro la possibilità di certificare l’adeguatezza delle imprese alle leggi. Un passo indietro”.
Parole condivise anche da Re David: “Gli ispettori in questo Paese non esistono più, su salute e sicurezza sono 200 in tutta Italia, per un milione e 600 mila aziende in chiaro”. E ancora: “La scelta del governo di affidarsi al mercato e fare scelte sui consulenti, invece di assumere negli ispettorati del Lavoro, è grave“, denuncia la Cgil. “Serve che i controlli siano veri. E che si vincolino le risorse che il governo dà alle aziende all’occupazione e agli investimenti su salute e sicurezza. Questo non c’era prima, ma continua a non esserci”.