La destra identitaria si richiama sempre di più a un passato – peraltro mitizzato dopo essere stato adeguatamente manipolato – per creare un nuovo ordine, basato sull’origine. Non a caso le sue retoriche fanno leva ora sulle radici, ora sul patriottismo, tutti dati che non sono il prodotto di scelte individuali, ma semmai il frutto di un destino. Nessuno di noi ha mai scelto dove nascere, semmai può tentare di scegliere dove vivere. Dico tentare, perché spesso questo gli viene impedito proprio da quei governi di destra, in nome della tutela dell’identità e dell’autoctonia.

L’identità, questo mito che sembra abbagliare molti, fino ad accecarli, come il sole basso d’inverno, che ti impedisce di vedere le biforcazioni della strada o come la nebbia d’autunno, che, che confonde l’orizzonte e fa sentire il bisogno di un confine. Identità e patriottismo (declinato oggi in sovranismo, per nascondere vecchi impulsi nazionalisti), ecco le due vecchie/nuove parole d’ordine della destra: oggi come in passato.

Perché dovrei sentirmi “orgogliosamente” di appartenere a un Paese che non ho scelto. Posso trovarmici più o meno bene, apprezzarne alcuni aspetti, criticarne altri, odiarne altri ancora, ma non posso andarne fiero a priori. “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono” cantava il compianto Giorgio Gaber. Sarebbe come se andassi fiero di essere alto 1 metro e 85, di avere gli occhi castani e il naso lungo (per tacere della mia pelle bianca). E, invece, proprio su elementi come questi che costruiscono le fondamenta i fautori dell’identità (declinata sempre al singolare!). Su dati “naturali” o occasionali. Dati che sarebbero, semmai, da imputare al destino, ma non alla nostra volontà.

Posso sentirmi orgoglioso o soddisfatto delle mie scelte, di avere fatto qualcosa, che ha migliorato l’esistenza di qualcuno più sfortunato, di avere contribuito a risolvere qualche problema, di avere fatto felice qualcun altro. Posso sentirmi più o meno appagato delle mie scelte politiche, religiose, dei miei gusti in diversi ambiti, tutti elementi di carattere culturale, rispetto ai quali io, come individuo, ho scelto quale strada scegliere, a quale gruppo (più o meno duraturo) appartenere, magari anche correndo il rischio di accorgermi di avere sbagliato.

Ecco dove sta la differenza: credere ciecamente in una “identità” data, elimina la possibilità di ogni errore. Cancella ogni dubbio. Rassicura, “lascia fare al destino”, sembra dire. Con il rischio di arrivare a quel blunt und blod (terra e sangue), tanto caro ai nazisti, all’idea che siamo ciò che siamo per destino e non per scelta, per la storia. Che non c’è altra strada che quella che ci detta la nostra identità.

Verrebbe da dire che siamo di fronte a una forma estrema di “tribalismo”, se non fosse che questo concetto lo abbiamo inventato noi occidentali, per attribuirlo ad altri, ai “primitivi” (le guerre in Africa sono sempre “tribali”, da noi etniche), che secondo vivrebbero in modo succube la loro appartenenza a una tribù solo per il fatto di esservi nati. Ma come scrisse l’antropologo Sigfried Nadel negli anni Cinquanta, “una tribù è un insieme di persone che crede di essere una tribù”. Persone che “pensano”, appunto, che hanno scelto, non che “sono”.

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