A chi li accostava alla criminalità organizzata, sulla base di informative di polizia, hanno sempre risposto di non aver mai subito condanne per reati di mafia. In passato i fratelli Fotia – costruttori originari di Africo e radicati nel Ponente della Liguria – sono stati oggetto di varie inchieste giornalistiche. Accostamenti che uno dei loro avvocati, a un certo punto, era arrivato a definire “razzisti”: “Sono perseguitati perché sono calabresi, non perché sono mafiosi”. Quando però si trattava di intimidire, però, la cattiva stampa tornava utile. “La fama criminale e la contiguità alla ‘ndrangheta”, scrivono gli inquirenti, serviva a spaventare potenziali acquirenti interessati alle case che il tribunale di Savona aveva confiscato e tentava di mettere all’asta. I malcapitati venivano accolti da mura tappezzate di articoli antimafia e dissuasi dai proprietari esecutati a presentare offerte: “Ci hanno indagato 50 volte e siamo ancora incensurati”.

Adesso il tribunale li ha condannati per un reato inerente la criminalità organizzata: turbativa d’asta aggravata dal metodo mafioso. Pietro e Francesco Fotia hanno rimediato rispettivamente 3 anni e 6 mesi di carcere e 2 anni di carcere, e all’interdizione per lo stesso periodo da rapporti con la pubblica amministrazione. La sentenza, firmata dal giudice Fiorenza Giorgi, è a suo modo storica: è la prima volta che un’inchiesta della Procura di Savona ottiene una condanna per reati mafiosi. Negli anni a cavallo delle grandi inchieste sulla ‘ndrangheta al Nord, nate in Calabria dalle operazioni Crimine-Infinito, Savona era rimasta una sorta di buco nero delle infiltrazioni mafiose. Le inchieste antimafia erano arrivate a circoscrivere l’esistenza di quattro locali di ‘ndrangheta – Genova, Ventimiglia, Lavagna e Sarzana – senza mai riuscire a lambire il savonese. A infrangere questo tabù era stata successivamente l’inchiesta Alchemia, sul clan Raso-Gullace-Albanese, partita ancora una volta dalla Calabria. Ma quella arrivata ieri è la prima indagine autoctona che è arrivata a una condanna.

La famiglia Fotia è formata da tre fratelli: Pietro, Francesco (l’esecutato) e Donato, colpiti di recente dalla misura preventiva della sorveglianza speciale. Per anni avevano gestito un’azienda di movimento terra, la Scavoter, che ha fatto incetta di appalti e aveva solidi legami con politici locali e amministrazioni rivierasche, come Andora, Vado Ligure e Celle Ligure. A seguito del fallimento della società sono arrivate le esecuzioni sugli immobili, come la villetta e il box intestati a Francesco Fotia, nell’esclusiva via privata Olivetta, a Savona, oggetto di questa storia. L’inchiesta della Squadra mobile, coordinata dai pm Luca Traversa e Monica Abbatecola, era partita da alcune anomalie rilevate nelle aste. Il capofamiglia, Pietro Fotia, 53 anni, riprendeva i visitatori col cellulare e li minacciava: “Questo immobile è di mio fratello, ce lo ricompriamo noi. Se presentate un’offerta vi veniamo a cercare. Non vi faccio più dormire la notte”. Particolare inquietante: Fotia aveva i dati personali dei clienti interessati. Sentito dalla polizia, un collaboratore del custode giudiziario delegato del tribunale di Savona, ha dichiarato: “Forse li ha sbirciati dalla lista”.

La vicenda racconta uno spaccato inquietante del sistema delle aste giudiziarie: in tutto questo tempo i Fotia hanno continuato a vivere indisturbati nelle proprietà che lo Stato aveva già confiscato. Le vendite andavano sempre deserte, grazie alle minacce. Gli unici a presentare offerte erano i familiari degli esecutati, che poi, immancabilmente, non versavano il saldo prezzo, consentendo agli occupanti di continuare ad abitare i beni confiscati. A interrompere questo circolo vizioso è stato uno dei visitatori intimiditi, l’unico che ha avuto il coraggio di presentare una denuncia, che nel luglio dell’anno scorso, su ordine del giudice Elisa Campagna, aveva portato all’arresto di Pietro Fotia.

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