In Tunisia il presidente Kaid Saied continua la sua opera di repressione del dissenso interno. Il 17 aprile è arrivato l’arresto dello storico leader del partito islamista moderato Ennahda, Rached Ghannouchi, seguito poi il giorno dopo dalla chiusura di tutte le sedi del partito nel Paese e dell’incarcerazione di altri due dirigenti di Ennahda, fatto che molti analisti considerano un preludio allo scioglimento del partito stesso. Ghannouchi è stato poi trasferito in ospedale dopo un peggioramento delle sue condizioni di salute. Decine di politici e esponenti della società civile tunisina e araba hanno subito lanciato un’ampia campagna di solidarietà con il leader di Ennahda, chiedendo alle autorità tunisine il suo immediato rilascio. Ma mentre la repressione continua, non ci sono state forti reazioni da parte dei paesi occidentali, che hanno deciso di adottare una strategia di realpolitik volta a sedersi al tavolo delle trattative con il presidente tunisino in materia di immigrazione e lotta al terrorismo, anche in vista del recentissimo scoppio della guerra civile in Sudan, cercando in ultima analisi di impedire a Cina e Russia di infiltrarsi nel Paese nordafricano.
Gli effetti del caos politico sull’economia – Il Fronte di Salvezza Nazionale (Fsn), una coalizione formata da cinque dei partiti più grandi della Tunisia (oltre al già citato Ennahda, al Amal, Hizb el-Harak, al Karama e Qalb Tounes, oltre ad una galassia di organizzazione della società civile), ha dichiarato per tramite il suo leader Abdel Latif al-Makki che le autorità hanno impedito loro di tenere una conferenza stampa per commentare i recenti avvenimenti politici successivi all’arresto di Rached Ghannouchi. Al-Makki ha inoltre spiegato ai giornali locali che “il ministero dell’Interno ha emesso una ordinanza basata sulla legge sullo stato di emergenza per impedire ai leader di Ennahda e del Fsn di incontrarsi in tutto il Paese”. Uno degli effetti più immediati di questa turbolenza politica si riscontra sul piano economico del Paese nordafricano. Il giorno successivo all’arresto di Ghannouchi e alla chiusura delle sedi di Ennahda i prezzi delle obbligazioni tunisine denominate in dollari sono scese ai minimi storici. La maggior parte delle obbligazioni tunisine ha infatti dimezzato il suo valore nominale, perdendo tra 0,2 e 1,3 centesimi di dollaro.
Le obbligazioni internazionali del paese arabo avevano già perso 4,6 centesimi del loro valore dopo che Saied aveva indicato che avrebbe rifiutato le condizioni del Fmi per un prestito da 1,9 miliardi di dollari. Interrogato sull’alternativa al prestito del Fmi, ha insistito sul fatto che “i tunisini devono contare su sé stessi”. Intanto il Fondo monetario internazionale ha segnalato la scorsa settimana che le discussioni con la Tunisia sul pacchetto di salvataggio continueranno, anche dopo che il presidente Kais Saied ha rifiutato pubblicamente i termini del prestito. La dichiarazione di rifiuto del presidente tunisino arriva nonostante le crescenti pressioni da parte degli Stati Uniti e dell’Unione europea affinché la Tunisia finalizzi l’accordo con il Fondo. Membri del suo governo, però, hanno detto più volte che non c’è alternativa all’accordo, visto che il Paese è alle prese con un debito estero stimato di 40 miliardi di dollari. Una delegazione tunisina ha infatti partecipato agli incontri di primavera del Fmi e della Banca mondiale a Washington dal 10 al 16 aprile in un nuovo tentativo di rilanciare l’accordo finanziario.
Gli effetti della crisi economica sulla questione migratoria – Dopo l’incontro alla Farnesina con il suo omologo Antonio Tajani, il ministro degli Esteri tunisino Nabil Ammar ha sottolineato la necessità di un intervento economico, soprattutto per arginare la questione migratoria che sta colpendo l’intera area del mar Mediterraneo. La Tunisia, spiega il ministro tunisino, “è disposta a rafforzare la cooperazione con tutti i partner per contrastare il traffico di esseri umani e per proteggere i migranti. Siamo pronti a fare tutto quanto possibile”, ma “la soluzione a medio e lungo termine è economica”. Tajani, da parte sua, ha dichiarato che l’Italia è “favorevole a sostegni di tipo economico per favorire la crescita di questo Paese così importante, l’Italia farà la sua parte anche nei confronti del Fmi. L’Italia ha una visione strategica sulla Tunisia“. Il 18 aprile il commissario europeo al bilancio, Johannes Hahn, ha spiegato, durante il suo intervenuto nel corso della plenaria di Strasburgo nel dibattito sulle migrazioni, che l’Ue sosterrà l’Italia sulla crisi migratoria. “Stiamo attuando il Piano d’azione per il Mediterraneo centrale lanciato a novembre e, nell’ambito di tale piano, continuiamo a costruire solidi partenariati sulla migrazione con i Paesi di origine, transito o destinazione”, ha spiegato, aggiungendo che “alla fine di questo mese, la commissaria Johansson (commissaria europea agli Affari interni, ndr) si recherà in Tunisia per lanciare un partenariato operativo anti trafficanti, per lavorare insieme, prevenire le partenze e le perdite di vite umane, e per aumentare i rimpatri, ma anche per fornire alternative credibili ai viaggi mortali, lanciando un partenariato di talento con la Tunisia”.
Ma, secondo alcuni analisti politici, Saied sta già esplorando alternative per sventare il default economico, smarcarsi dai “diktat stranieri” e ottenere quindi un importante aiuto economico senza dover attuare le riforme di austerità volute dal Fmi. Secondo infatti quanto riporta l’Arab News Agency, che riprende le parole di Mahmoud bin Mabrouk, portavoce del Movimento 25 luglio, una delle formazioni politiche tunisine che sostiene il presidente Saied, il paese nordafricano ambisce ad aderire presto ai Brics, il gruppo delle economie emergenti che comprende Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, al quale hanno chiesto di entrare a far parte Paesi come l’Algeria, l’Egitto, l’Uruguay, gli Emirati Arabi Uniti e il Bangladesh. Bin Mabrouk ha evocato i Brics parlando di “un’alternativa politica, economica e finanziaria che permetterà alla Tunisia di aprirsi al nuovo mondo”. Sharan Grewal, ricercatrice del Center for Middle East Policy presso la Brookings Institution, ridimensiona la portata della dichiarazione di bin Mabrouk e in un commento rilasciato sul quotidiano Al-Monitor ricorda come “il Movimento 25 luglio non è il partito di Saied – in realtà non ne ha uno – e non è chiaro che tipo di contatti o collegamenti ci siano tra di loro”. È del tutto possibile, però, conclude Grewald, che queste voci siano studiate apposta “per mettere pressione sull’Fmi. Far balenare l’opzione esterna della Cina, in particolare, dovrebbe suscitare a Washington un tale numero di paranoie da spingere i funzionari Usa ad approvare il prestito dell’Fmi nonostante le loro riserve su Saied”.