Le storie più interessanti sono quelle che vengono su come alberi storti, con le radici ben piantate nel terreno fertile del paradosso. È così per tutti, ma non per José Mourinho, l’uomo partito da Setubal che è risuscito a conquistare il mondo stando sempre bene attento ad autoproclamarsi hombre vertical. Almeno fino a ora. Perché il romanzo che sta scrivendo con la Roma è contraddittorio, ma allo stesso tempo incredibilmente lineare. Quarto posto in classifica, 19 punti di distacco dalla prima, eliminazione ai quarti di finale di Coppa Italia contro una Cremonese che non aveva mai vinto una partita, due derby persi in una sola stagione, un gioco così farraginoso da diventare quasi straziante. A leggerli uno dietro l’altro sembrerebbero i numeri del peggior Mourinho della storia. E invece potrebbero essere quelli del miglior Mourinho di sempre. Perché con il suo arrivo in giallorosso lo Special One ha dovuto cambiare soprattutto se stesso.

L’uomo che si era abituato ad assemblare squadre spaziali, il manager che accatastava fenomeni per poi gestirli e incastrarli uno accanto all’altro, all’improvviso si è dovuto riscoprire soprattutto allenatore. Basta parchi giocatori sterminati, con le riserve che a volte erano più forti degli stessi titolari, addio ai traguardi ambiziosi, alle coppe pesanti. A Roma, Mourinho si è trovato a lavorare con una rosa ristretta, piena di buchi da riempire con giocatori provenienti dalla Primavera o rincalzi non sempre all’altezza. E visto che non poteva più essere il santone, il Re Mida che trasformava in oro tutto quello che toccava, si è reinventato insegnante. Sposando la Roma, Mourinho si è rimesso in discussione. Uno degli allenatori più vincenti della storia è tornato alle origini di se stesso, diventando molto più simile alla propria versione al Porto che a quella dei club con cui aveva regnato per quasi due decenni.

Non potendo dominare gli avversari, Mou ha dovuto iniziare a lavorare d’astuzia, a disseminare trappole sul loro cammino. E il suo calcio considerato da qualcuno così antiestetico (anche se non c’è niente di più fuorviante dell’idea di bellezza applicata al pallone) è diventato l’estetica di una Roma che spesso è stata brutta, sporca e cattiva, ma che ha trovato una sua identità tutta nuova. Il minimo comun denominatore non può essere la classe abbacinante, la giocata vellutata, il colpo da stropicciarsi gli occhi. Questa Roma esprime un calcio più morigerato e operaio, fatto di sudore, di impegno e di abnegazione. Il risultato si vede a domeniche alternate da circa un anno e mezzo. Un sold out dopo l’altro, con squadra, tifoseria e tecnico che si identificano alla perfezione in un corpo unico come non era successo neanche ai tempi di Fabio Capello, quando la Roma di Batistuta, Totti, Samuel, Tommasi e Montella schiacciava gli avversari domenica dopo domenica.

Al suo arrivo José sembrava essere un’entità completamente fuori contesto che veniva vista con incredulità e stupore, ma anche con sospetto. A cosa serviva Mourinho senza i giocatori che hanno reso grande Mourinho? La risposta è arrivata col tempo. Il tecnico ha regalato una seconda giovinezza a Smalling e a Matic, ha aiutato Cristante, Mancini, Ibanez e Pellegrini a compiere il salto di qualità, ha lanciato in prima squadra Zalewski, ha rigenerato Spinazzola, ha dimostrato che Dybala a mezzo servizio può essere ancora un giocatore straordinario, ha aperto il cassetto dei ricordi per segnalare alla società l’arrivo in prestito di Llorente. Ma, soprattutto, ha guidato una squadra che non aveva mai vinto in Europa prima al successo continentale (anche se si è trattato di una “semplice” Conference League) e ora alla semifinale di Europa League. In pratica un club che viveva di exploit e di fiammate, ora è riuscito a costruirsi una propria credibilità anche fuori dai confini nazionali.

Certo, alcuni problemi restano strutturali, soprattutto in fase offensiva, eppure Mourinho ha dimostrato di poter mantenere intatta la sua aurea di vincente pur lottando per palcoscenici meno ambiti. O, al contrario, che la possibilità della Roma di lottare per alcuni traguardi è subordinata alla sua presenza. Prima dell’andata dei quarti di finale di Europa League, l’allenatore del Feyenoord Arne Slot aveva detto: “Rispetto la Roma, ottengono risultati con il loro gioco, ma preferisco guardare Manchester City e Napoli. Sono onesto su questo”. Ieri sera, dopo il 4-1 incassato all’Olimpico, Espn ha chiesto all’olandese del suo colloquio a fine partita con Mourinho. “Mi ha detto che non devo guardare solo Napoli e Manchester City, ma che mi aiuterebbe anche guardare la Roma“, ha raccontato Slot. È la dimostrazione che il talento di Mourinho è rimasto intatto nonostante il passare degli anni. “Dio e dopo di lui io”, disse una volta lo Special One. Ma se davvero dovesse vincere l’Europa League con la Roma, forse, il tecnico sarebbe pronto a rivedere il suo rapporto gerarchico con l’Altissimo.

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