Quando si decide di scrivere di un nuovo album dei Metallica la prima cosa da fare è decontestualizzare: dare cioè per scontato che quello praticato da “Kill’Em All” a “…And Justice For All” sia uno sport diverso rispetto alle discipline portate avanti successivamente. Allo stesso modo, a seguito dell’uscita nel 2003 di “St. Anger” un’altra certezza, dal sapore per certi versi assolutorio, sì è delineata altrettanto nettamente: i nostri eroi avevano ovvero toccato il fondo.
E per onestà intellettuale non si può non riconoscere come i Metallica una certa risalita l’abbiano iniziata con “Death Magnetic” e poi proseguita con l’ultimo “Hardwired… To Self-Destruct”: motivo per cui questo “72 Seasons” – della cui esistenza nessuno sapeva – è atteso al varco come l’ennesima prova del nove. La loro: quella del gruppo più attenzionato della storia, che vanta il maggior numero di recensioni ante tempus, che più di altri ha srotolato la bile di migliaia di persone – addetti ai lavori e non – tutte pronte a rimarcarne i fallimenti solo per prendersi la scena.
Come si pone quindi “72 Seasons” all’interno di tutto questo? Facile: come una sana via di mezzo tra i due lavori precedenti: convincente quanto basta, a tratti esaltante ma anche prolisso, farraginoso quando non poco ispirato, con lo sguardo rivolto a “Load” e “Reload” e meno ai lavori miliari dei quattro. Un album che è un concept sull’incidenza che nel prosieguo della vita di ognuno hanno i primi 18 anni (le settantadue stagioni, appunto) con i Metallica – passatemi la battuta – che di materiale ne avrebbero, e tanto, per parlare dei problemi invece insiti nell’approssimarsi della terza età.
Scherzi a parte, risulta evidente ascoltandolo che la transizione verso la probabile ultima decade di attività di questa formazione leggendaria sia entrata in una nuova fase, dove muoversi con regole un po’ nuove, un po’ no. A dirigere e motivare la ciurma rimane saldo al comando quel James Hetfield le cui pennate e riff trovano una sponda utile quasi solo nel basso di Rob Trujillo, a dispetto di un Lars Ulrich e un Kirk Hammett capitati in studio di registrazione sembra quasi per sbaglio, col secondo che, non da ieri, intrattiene una relazione totalmente fine a se stessa col proprio pedale wah wah.
Ciò nonostante, quando i Metallica decidono di fare niente più che i Metallica ecco che sfornano pezzi di indubbio valore: la title track “72 Seasons”, la successiva “Shadows Follow”, il primo singolo “Lux Aeterna” (dal sapore molto Diamond Head), l’altro estratto “If Darkness Had A Son” e il trittico finale composto da “Too Far Gone?”, “Room Of Mirrors” (col suo outro da brividi) e l’ultima “Inamorata” (il loro brano più lungo).
Nel mezzo, ahinoi, alcune delle cose meno ispirate mai partorite dai quattro cavalieri del thrash: su tutte “You Must Burn!” (dove il tanto sbandierato contributo ai cori di Trujillo è praticamente impercettibile), “Crown Of Barbed Wire” e “Chasing Light”. Che altro dire? Volessimo paragonare questo lavoro all’ultimo “The Sick, The Dying… And The Dead!” dei Megadeth faremmo il gioco dell’ex Dave Mustaine; idem se fantasticassimo sulla resa e la forma di queste stesse canzoni con Dave Lombardo alla batteria e (appunto) Kiko Loureiro alla chitarra solista.
Sarebbe meglio? Chissà. Sicuro non sarebbero i Metallica. “72 Seasons” strappa la sufficienza e la supera sfiorando forse il sette. Non contiene alcun classico, nessun brano che verrà ricordato da qui ai prossimi trent’anni ma diverse canzoni di spessore non comune, certamente, sì. Nel dubbio, grazie Dio per averci regalato i Metallica: pure nella loro forma non migliore ma comunque ancora tra noi.