La montagna, oggi, ha sete d’acqua. Per la distribuzione dell’acqua potabile, per ridurre il rischio di frane – un terreno esposto, per lungo tempo, alla siccità, è impermeabile a improvvisi rovesci e al fenomeno del ruscellamento – e per sostenere l’economia locale, che in molte aree è ancora – e forse fuori tempo – sci-centrica. Ma la montagna ha bisogno d’acqua anche per la produzione di energia. In Italia l’idroelettrico è al primo posto tra le fonti rinnovabili, di cui copre circa il 28% del totale. Ma ora, coi cambiamenti climatici in corso, che stanno colpendo in maniera più intensa le aree montane (e quelle criosferiche), l’idroelettrico è a rischio. Lo sarà già, in maniera pressante, tra poco meno di due decenni: “Da inizio secolo abbiamo verificato una diminuzione del 10-15% della quantità d’acqua disponibile per la produzione idroelettrica – spiega Daniele Bocchiola, professore del dipartimento di Ingegneria civile e ambientale del Politecnico di Milano – a metà secolo, a seconda degli scenari dell’Ipcc che vengono presi in considerazione, ci sarà un’ulteriore diminuzione del 10-15%. L’acqua a disposizione per la produzione di energia elettrica sarà decisamente inferiore a oggi. Con tutta una serie di conseguenze”.
CAPANNA MARGHERITA E LA (SCARSA) SALUTE DELLE ALPI – Che cosa sta succedendo alle nostre montagne? Per capirlo, facciamo un piccolo viaggio nella “sentinella” dei cambiamenti climatici, e cioè la stazione meteorologica più alta d’Europa: Capanna Margherita, 4.556 metri sul livello del mare, sul Monte Rosa. Qui, l’anno scorso, nei mesi estivi – quando la temperatura massima media è intorno a 1° – si registravano frequenti picchi tra i 6 e gli 8 gradi. Stessa cosa in inverno (con la temperatura massima media di -8), quando spesso si è registrato il valore di -2 gradi. Cosa portano con sé queste temperature? Minori precipitazioni e, dunque, minore quantità di neve.
Grazie al Cai (Club alpino italiano) di Milano, tre professori universitari (Antonella Senese della Statale di Milano, Fiorella Acquaotta dell’Università di Torino e il già citato Bocchiola) insieme a Luca Grimaldi dell’Ersaf (l’ente regionale che si occupa di agricoltura e foreste) hanno fotografato la situazione delle Alpi italiane. Con risultati sconcertanti. “Non ci vorrà molto tempo prima che i ghiacciai italiani scompaiano” dice Bocchiola. “Quelli della Lombardia, dal 1981 al 2007, hanno perso spessore glaciale fino a 70 metri. E i ghiacciai alpini sono spessi 50-100 metri”. L’Ortles-Cevedale, giusto per fare un esempio, perde circa due metri di neve all’anno. “I ghiacciai – continua Bocchiola – si ritirano, nevica sempre meno, le temperature più elevate fanno sì che aumenti l’evaporazione nei suoli, dai laghi, dalla vegetazione. Il combinato disposto di tutte questi elementi determina una minore disponibilità d’acqua”.
L’IDROELETTRICO A RISCHIO – Grazie al progetto Idrostelvio, con cui il Politecnico e la Statale di Milano monitorano torrenti e piccoli fiumi del Parco nazionale dello Stelvio con stazioni poste sopra i 2000 metri di quota, è possibile calcolare quanta acqua provenga dalla fusione del ghiacciaio. Ciò che hanno notato gli esperti è che quest’acqua ricopre una larga fetta della portata totale. Che cosa significa? Che senza i ghiacciai, torrenti e piccoli fiumi sono destinati a rimpicciolirsi notevolmente. “Per questo diciamo che i gestori dell’idroelettrico, sulle Alpi, incorreranno in problemi a partire da metà secolo, perché ci sarà una grande quantità di acqua in meno” dice Bocchiola. “È vero, esistono sistemi ‘smart’, come le batterie idrauliche, che permettono il riutilizzo dell’acqua, o sistemi complessi di movimentazioni delle acque, come nel Parco dello Stelvio, con diversi serbatoi legati tra loro, che possono mitigare, un minimo, l’impatto della mancanza d’acqua. Ma bisogna tenere in considerazione la distribuzione delle piogge nel tempo: i serbatoi funzionano bene quando la portata dell’acqua è pressoché costante, mentre i sistemi vanno in crisi se ci sono periodi di siccità alternati a piene improvvise. Banalmente, i serbatoi non sono sufficientemente grandi per trattenere l’acqua, che viene persa. Insomma, anche con sistemi ‘smart’, la variabilità fa sì che diventi difficile mitigare la riduzione di acqua. Il problema è che, stando ai piani di transizione energetica, si dovrebbe puntare sull’idroelettrico. Ma è probabile che ci sarà una contrazione. Il punto è bisogna esserne consapevoli: vanno trovate soluzioni da subito“.
RIFUGI E ALPEGGI – Che le nostre montagne siano malate se ne accorgono anche i lavoratori che le vivono. Dal report dell’Ersaf, presentato al Cai, è emerso, per esempio, che circa il 30% dei rifugisti lombardi ha chiesto interventi specifici per contrastare il problema dell’approvvigionamento idrico. L’anno scorso, in particolare, la siccità ha avuto conseguenze negative per la metà dei gestori: accanto alle riduzioni di presenze nella stagione primaverile per lo scarso innevamento, almeno il 60% ha avuto una diminuzione del 30-40% dell’acqua disponibile. E il 10% ha dovuto chiudere l’attività prima del previsto. Lo storico rifugio Marco e Rosa De Marchi non ha mai aperto per via del troppo caldo. Ma i danni sono evidenti anche negli alpeggi. L’anno scorso, già a inizio agosto – l’attività, in genere, si chiude intorno a settembre, quando si torna a valle – gli allevatori non riuscivano più a nutrire gli animali, perché l’erba era troppo secca. In più, con un’alimentazione così anomala, si è visto come le capre fatichino a produrre il latte.
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