La sera di martedì 4 aprile, in una magnifica villa sulle rive del Nilo i due generali che ora si contendono il controllo del Sudan e il destino di 45 milioni di persone, hanno avuto un Iftar, hanno cenato insieme rompendo il digiuno del Ramadan e parlato di pace. Ma mentre parlavano di accordi, intesa, armonia, unione, concordia e riconciliazione, preparavano la guerra. Sei giorni prima che il Sudan precipitasse in un conflitto catastrofico, i suoi due generali più potenti sembravano vicini a un accordo che i mediatori – americani e britannici seduti con loro al tavolo quella sera – speravano avrebbe disinnescato la loro rivalità esplosiva e persino guidato la vasta nazione africana verso la democrazia.
Quello era l’ultimo dei lunghi incontri che gli inviati stranieri hanno tenuto con i due generali – il capo dell’esercito, generale Abdel Fattah al-Burhan (a sinistra nella foto) e il leader dei paramilitari della RSF, generale Mohamed Hamdan Dagalo (a destra) – nel tentativo di raggiungere un accordo. Sono state fatte promesse, estorte concessioni che ad americani e inglesi sembravano davvero credibili. Ma per le strade, i mezzi e gli uomini dei due rivali si stavano preparando a combattere. Dalla notte successiva le truppe hanno iniziato schierarsi silenziosamente intorno agli accampamenti militari rivali in tutta la capitale, dove si contrassegnavano l’un l’altro come giocatori avversari su un campo di calcio.
E quando la mattina di sabato sono risuonati i primi colpi di kalashnikov, la finzione del dialogo è stata immediatamente infranta. E’ stata una pretesa eccessiva quella degli Stati Uniti e della Gran Bretagna – ex potenza coloniale in Sudan – di arrivare e diventare attori principali su uno scenario già molto affollato. I cinesi in tutta l’Africa orientale sono una realtà da almeno un decennio e il Sudan non fa eccezione, c’è la Russia amica dell’ex dittatore Bashir e ora schierata con i suoi mercenari Wagner con Hamdan – che tutti chiamano Hemeti – per lo sfruttamento delle miniere d’oro con le quali finanzia la guerra in Ucraina, c’è la Turchia, gli Emirati Arabi e l’Arabia saudita che sostengono le RSF che hanno combattuto per loro nello Yemen.
Abdel Fattah al-Burhan, 62 anni, è un serio generale a quattro stelle, addestrato in Egitto e Giordania, che ha comandato le truppe nelle dure campagne di contro-insurrezione del Sudan nel sud e nell’ovest del Paese. Nato in un villaggio lungo il Nilo, incarna la classe degli ufficiali delle tribù arabe fluviali che hanno dominato il Sudan dall’indipendenza nel 1956. Mohamed Hamdan Dagalo ha invece poco più di 40 anni ed è un ex commerciante di cammelli diventato comandante della milizia con una reputazione di spietatezza cresciuta insieme a ricchezze e influenza.
Il generale Hamdan si è arricchito grazie a lucrose concessioni di estrazione dell’oro e al suo ruolo nel mandare migliaia dei suoi paramilitari a combattere nello Yemen, dove gli Emirati Arabi Uniti hanno pagato profumatamente per i suoi servizi. Ha ricevuto sostegno anche dall’Unione Europea, le sue truppe hanno impedito ai migranti di attraversare i lunghi confini del Sudan, anche se Hamdan stesso è sospettato di trarre profitto dal traffico di esseri umani. La sua carriera è una lezione di imprenditorialità politica da parte di uno specialista della violenza.
Invece di essere ostracizzati, questi generali sono stati corteggiati anche dall’Occidente che sperava di strapparli al potere e ha ignorato i movimenti pro-democrazia protagonisti della rivoluzione del 2019. Hemeti, la cui famiglia proviene dal Ciad, è passato dall’essere considerato un signore della guerra analfabeta nel Darfur che faceva il lavoro sporco di Bashir sulla frontiera selvaggia, al centro del potere a Khartoum. Alcuni, inviati speciali americani e inglesi, hanno iniziato a trattare questi generali come statisti, non come golpisti con le stellette. Non appare ora come la strategia giusta.
La fragile federazione sudanese confina poi con 9 diversi Paesi, confini labili e porosi. Burhan ha goduto a lungo del sostegno del vicino Egitto del Sudan, dove è stato addestrato e dove il governo anti-islamista del presidente Abdel Fattah el-Sisi che chiude un occhio sul fatto che il principale sostegno interno di Burhan provenga dagli islamisti dell’era Bashir. Il rivale dell’Egitto e l’altro grande vicino del Sudan, l’Etiopia, potrebbe decidere che il nemico del suo nemico è suo amico e sostenere Hemeti che, si dice, abbia anche acquistato molti immobili ad Addis Abeba. Il Ciad, che condivide un confine di 1.300 chilometri con il Sudan, ha i suoi problemi interni ma non va dimenticato che il cugino di Hemeti, Bichara Issa Djadallah, è un generale ciadiano.
Ci sono anche altri attori minori nel “grande gioco del Sudan” e poco raccomandabili, come il generale Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica. Hemeti sta ricevendo aiuti dal leader militare libico: due aerei sono decollati da Kufra, nella Cirenaica della Libia sud-orientale, controllata da Haftar e sono atterrati nel territorio sudanese controllato da Hemeti. Kufra è un importante centro commerciale per merci legali e illegali che attraversano i confini della Libia verso il Ciad e il Sudan. La famiglia Haftar ha molto a cuore il destino di Hemeti e la sopravvivenza delle reti commerciali illecite che esistono tra il Sudan e la Libia orientale. Carburante, captagon, hashish, oro e auto rubate sono tra le merci illegali contrabbandate dentro e fuori il Sudan e la Libia. Il territorio controllato da Haftar in Libia si trova al termine della lunga rotta migratoria che dall’Etiopia e dall’Eritrea attraversa il Sudan – in una zona controllata da Hemeti – e poi si dirige verso il Mediterraneo. La tratta di persone è dal 2014 un commercio redditizio in Libia. Ma anche in Sudan.