di Carmelo Sant’Angelo
Nel 1918 Gabriele D’Annunzio creava il mito politico della “vittoria mutilata” per esprimere l’insoddisfazione dell’Italia che non aveva ottenuto, al termine della Prima guerra mondiale, tutti i compensi territoriali a cui aspirava sulla base degli accordi precedentemente stipulati con gli alleati. In tale mito si fusero i principi del revanscismo e dell’irredentismo italiano del primo dopoguerra e, secondo Gaetano Salvemini, esso costituì anche la base ideologica del fascismo.
Il 25 settembre 2022 è nato, invece, il mito della “vittoria soffocata”. Per la prima volta un partito post-fascista, con la fiamma ancora ardente, vince le elezioni ed esprime il capo del governo. I più nostalgici (per usare un eufemismo) tra gli eletti vorrebbero sbandierare la loro autentica fede politica ai quattro venti, ma sono costretti a mistificare i fatti ed a fornire interpretazioni fantasiose delle loro precedenti affermazioni. Occupano le alte cariche dello Stato, ma hanno l’obbligo di mettersi la mordacchia. È la stessa situazione in cui si verrebbe a trovare un ipotetico tifoso dell’Inter che, trovando posto unicamente nella curva dei milanisti, al gol di Lautaro Martinez non possa esultare a squarciagola. È proprio una vita d’inferno!
Alla vigilia del 25 aprile costoro devono crearsi degli alibi per non festeggiare la Liberazione, come degli studenti immaturi che piatiscono una giustificazione per le loro assenze.
Curioso anche il loro modo di leggere la Costituzione come se fosse una ricetta di Benedetta Parodi. La parola “antifascismo” non c’è quindi è un ingrediente da non usare. La parola “Nazione” è riportata tre volte però è meglio usarla in abbondanza perché dà più aroma.
Ma la Costituzione non è una ricetta né un insieme di regole procedurali. La Costituzione è la massima espressione della cultura politica di un popolo ed ogni cultura politica si differenzia dalle altre in base ai valori che essa propugna. Sono i valori e non i meccanismi di funzionamento a rendere credibili gli ordinamenti costituzionali degli Stati. È il richiamo a questi valori che legittima l’azione dei partiti e delle stesse Istituzioni. Non è un caso che la nostra Carta sia il frutto di un “compromesso costituzionale” tra culture politiche diverse, divise su tutto tranne che sulla comune avversione al fascismo.
La valenza del compromesso costituente va ben al di là degli accordi contingenti raggiunti sui singoli articoli della Costituzione, perché è un processo e non un accordo cristallizzato in una serie di norme. È un processo che si rinnova costantemente, come interpretazione di fondo del ruolo politico giocato da ciascun partito dell’arco costituzionale. I partiti devono, da un lato, rappresentare le proprie subculture politiche di riferimento (qualora le abbiano), ma, al contempo, sono tenuti a saldare e a rinnovare continuamente il compromesso costituzionale, richiamandosi ad un’eticità condivisa, cioè ai principi sanciti nella Costituzione.
Il gioco democratico perpetua i valori contenuti nella Carta e questi valori sono il propulsore della vita associata. Un partito che intenda giocare all’interno del perimetro democratico non può disconoscere questi valori né, ancor peggio, disprezzarli o rinnegarli perché “una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo come dimostra la storia”. Non è la frase di un “pericoloso” partigiano o di un “nemico comunista”, ma è un’affermazione contenuta nella enciclica di Giovanni Paolo II “Centesimus Annus”, la cui lettura potrebbe aiutare anche i sedicenti sostenitori di “Dio, Patria e Famiglia” a comprendere lo stato di salute delle democrazie contemporanee.