La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i 335 morti ammazzati delle Fosse Ardeatine “uccisi solo perché italiani”. Il presidente del Senato Ignazio La Russa e il reggimento di affiliati alle SS uccisi durante una marcia in via Rasella definito “una banda di musicisti semi-pensionati“. Da dove nascono queste scelte retoriche che hanno soprattutto contribuito a una semplificazione del fascismo e dell’antifascismo come “retorica di convenienza”, facilitando la “vittimizzazione” della destra come oggetto di “false accuse” e dando spazio al revisionismo storico? Occorre tornare alla storia e ragionare sulle effettive eredità collettive fasciste che permeano ancora cultura e società italiane. Mimmo Franzinelli è uno dei maggiori contemporaneisti italiani, studioso della storia del fascismo e dell’Italia repubblicana, autore di numerosissimi volumi e saggi in particolare sulle pagine più nere del fascismo e del postfascismo (I tentacoli dell’OVRA, Delatori. Spie e confidenti anonimi, Il tribunale del Duce). L’ultimo suo titolo è Il fascismo è finito il 25 aprile 1945, pubblicato nel 2022, all’interno della collana Fact checking, curata da Carlo Greppi per Laterza: il volume indaga le linee di continuità tra il regime e la Repubblica.
Professor Franzinelli, la caduta del duce è avvenuta per mano del re e del Gran Consiglio del fascismo, che lo hanno “destituito”. Anche le modalità di questa caduta sottolineano una forma di conservazione del potere, al di là del ruolo di un singolo individuo. Come si è strutturata questa conservazione e quanto è stato effettivamente conservato?
Quando lo storico Claudio Pavone ci ha parlato di una continuità dello Stato – tra Stato liberale e fascista e poi tra fascismo e Prima Repubblica – ha richiamato l’attenzione sulla non contraddittorietà tra cambiamenti e canali di continuità. Ad esempio, indubbiamente, l’esplosione del fascismo con la caduta di Mussolini ebbe un peso che, tuttavia, non implicò il crollo della struttura autoritaria in cui il fascismo era nato, si era articolato e che aveva consolidato. Emblematiche sono senz’altro le modalità della caduta del duce e, inoltre, il largo mantenimento dei gerarchi fascisti in varie posizioni istituzionali. Con il passaggio repubblicano è particolarmente interessante osservare le carriere, soprattutto in magistratura e polizia. Ad esempio la Corte di Cassazione mantenne molto del personale fascista e divenne una struttura fondamentale nel processo di restaurazione, gestendo l’amnistia e accogliendo molti dei ricorsi di criminali fascisti. Sulla polizia basti dire che il capo dell’Ovra, ossia della polizia politica fascista, sarebbe diventato capo della scuola tecnica della polizia. Dinamiche del genere hanno assunto anche evidenti connotati di classe: molti degli industriali che avevano collaborato con il regime rimasero saldamente al loro posto, mentre tanti degli operai che avevano contribuito alla lotta partigiana o che si erano saldamente espressi su posizioni antifasciste furono brutalmente licenziati.
La legittimazione istituzionale di questi canali di continuità si è legata a una diffusa deresponsabilizzazione del fascismo e a una forte distorsione della memoria storica. In che modo?
Senz’altro un aspetto centrale per la legittimazione di questi canali di continuità è stato proprio la profonda deresponsabilizzazione del fascismo, che ha vissuto un ulteriore consolidamento con la guerra fredda e con l’identificazione della destra e dei fascisti come potenziali alleati. Questo contesto ha comportato anche evidenti tentativi di occultamento: si pensi allo scandalo giornalistico dell’Armadio della vergogna. Solo nel 1994 si scoprì che magistratura e procura generale militare avevano nascosto circa 2.4000 fascicoli in cui emergevano con chiarezza molti dei crimini nazifascisti. Questa negazione di giustizia – ben diversa da quanto successo in Germania con il processo di Norimberga – contribuì a una diffusa ignoranza dei crimini fascisti, tutto sommato considerati come italiani, brava gente. La costruzione di una memoria parziale del fascismo ha trovato le sue radici già nella gestione mediatica da parte del regime. Ad esempio, gli intellettuali venivano pagati, puniti, banditi a secondo del proprio posizionamento: Giovanni Ansaldo, dapprima antifascista, fu esiliato e, una volta pentito, divenne uno dei maggiori propagandisti del regime. Alla caduta del fascismo, Ansaldo e altre figure come Indro Montanelli mantennero una posizione autorevole nella stampa repubblicana, contribuendo a costruire un’immagine blanda del fascismo, largamente autoassolutoria. Fu mantenuto il silenzio su tanti dei crimini compiuti dai fascisti e più in generale dall’Italia nelle colonie africane o sul confine orientale, mentre la stampa inquisì molte figure partigiane. Non stupisce che ancora oggi queste forme di revisionismo storico influenzino il discorso politico, all’interno di un circolo di deresponsabilizzazione e distorsione di una memoria dimezzata, come emerge a partire dalle affermazioni di Ignazio La Russa e Giorgia Meloni, che associano gli antifascisti a eversori e i fascisti a sostenitori della nazione.
È un fatto che il fascismo torni sempre più spesso come protagonista delle cronache, segnando la politica e la società con una presenza che non si può ignorare.
Partiamo da un fatto poco noto: i consigli comunali sono chiamati a valutare periodicamente se mantenere la cittadinanza onoraria concessa a Mussolini nel 1924, all’interno di un processo di costruzione di egemonia. Si tratta di un fatto surreale, che la destra ricorrentemente utilizza per richiamarsi al rispetto di una volontà popolare, storicamente non comprovata. Infatti, attraverso uno scavo storico in alcune carte di governo, mostrato in Il fascismo è finito il 25 aprile 1945 risulta evidente che questa fu una manovra propagandistica del regime. Ulteriore scandalo sta nel rinnovo di questa onorificenza da parte delle amministrazioni di Salò, che fu centro della Repubblica sociale italiana fascista, e di Carpi, dove fu situato il campo di concentramento di Fossoli, dove fu internato anche Primo Levi. Per quanto riguarda il panorama internazionale, invece, è interessante e preoccupante osservare la crescita di nazionalismi, forieri di contrapposizioni e di guerre e in stretto rapporto con le eredità del fascismo. D’altro canto, l’antifascismo nella sua qualità più elevata lo troviamo nel Manifesto di Ventotene del 1942, che portò alla stesura di un manifesto federalista clandestino, con la consapevolezza che il nazionalismo necessitava un progetto alternativo, che allora fu chiamato Stati uniti d’Europa, e che forse oggi necessiterebbe un ripensamento per superare spinte nazionaliste ancora così radicalmente presenti. Oltre a ciò, occorrerebbe tornare a parlare di antifascismo come costruzione di un’identità politica e culturale capace di rispondere alle esigenze della società, piuttosto che focalizzarsi esclusivamente su allarmismi facili contro il riemergere di una destra fascista, che non aprono alcun orizzonte alternativo e propositivo.
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Nella foto in alto | A sinistra il giurista Gaetano Azzariti che – antisemita convinto – è stato presidente del Tribunale della razza sotto il regime fascista e poi è stato presidente della Corte costituzionale dal 1957 al 1961. Questa immagine riassume ulteriormente il paradosso: con lui è ritratto Nicola Picella (a lungo segretario generale del Quirinale) che – per quanto cresciuto professionalmente sotto il fascismo fino agli anni Quaranta – fece parte di una sorta di “Cln dei magistrati” clandestino durante l’occupazione tedesca di Roma