Il governo Meloni deve ringraziare Eurostat per il mini taglio del cuneo che intende varare nel giorno della Festa dei lavoratori. Perché i 3,4 miliardi con cui sarà coperta la sforbiciata derivano tutti dalla riclassificazione dei crediti di imposta legati alle ristrutturazioni edilizie, che ha spostato sul 2021 e 2022 una parte importante del deficit prima spalmato su tutti gli anni di fruibilità delle detrazioni. E, di conseguenza, sulla carta ha liberato spazio fiscale nel 2023. Tutto bene dunque? Non proprio. Perché, come fanno notare su lavoce.info l’analista di finanza pubblica Emilia Marchionni e l’economista Leonzio Rizzo, lo spostamento del deficit è solo un artificio contabile e nei fatti non crea alcun “tesoretto” da spendere senza conseguenze. Il Documento di economia e finanza approvato dieci giorni fa, poi, non spiega perché nel 2024 e 2025 l’indebitamento previsto cali molto meno di quel che avrebbe dovuto sulla base della revisione fatta da Istat. A mancare all’appello sono circa 10 miliardi il primo anno e più di 13 il secondo. Dove finiranno quei soldi? Per quali voci il Tesoro si aspetta aumenti di spesa o riduzioni delle entrate? Il Def non lo spiega.

La domanda è rilevante per due motivi, chiarisce Rizzo: innanzitutto, quelle risorse avrebbero potuto essere utilizzate per finanziare in legge di Bilancio sanità, spesa pensionistica, rinnovi contrattuali del pubblico impiego e altri interventi necessari le cui coperture, come evidenziato anche dalla Corte dei Conti, restano tutte da trovare. Visto che la coperta è corta, secondo i due analisti servirebbe più trasparenza e il governo dovrebbe chiarire come mai “diversi decimi di punto di Pil (circa 0,5 punti nel 2024 e 0,7 punti nel 2025)” sono “apparentemente dispersi a copertura del peggioramento tendenziale di altre voci di spesa o di entrata” non definite. I valori potrebbero essere leggermente sovrastimati perché non tengono conto della riclassificazione dei soldi del Pnrr destinati al Superbonus, ma le grandezze di massima sono quelle. C’entra l’aumento dei rendimenti dei titoli di Stato? O forse maggiori spese legate all’inflazione? Al momento non è dato capirlo. In chiaro il documento dice solo che nel 2024 0,2 punti di pil andranno a ridurre la pressione fiscale. Nel 2025 nemmeno quello: il teorico miglioramento del deficit di 0,7 punti risulta completamente assorbito.

Il secondo aspetto riguarda l’evoluzione dell’imponente rapporto debito/pil italiano (144,4% nel 2023). Perché bisogna tener presente che la riduzione dei deficit/pil di quest’anno e dei prossimi legata alla riclassificazione di Superbonus &c è “un mero artificio contabile” determinato dall’interpretazione di Eurostat, ricordano Marchionni e Rizzo, ma non cambia di una virgola l’impatto sul debito pubblico. La variazione del debito dipende dal fabbisogno, che si calcola secondo criteri di cassa e cioè in base a quando si verifica l’uscita vera e propria per lo Stato. Aver cambiato la contabilizzazione del deficit non modifica questo andamento. Utilizzare l’apparente miglioramento del deficit tendenziale per aumentare le spese o ridurre le entrate comporta “un aumento del debito rispetto a quanto previsto prima della riclassificazione”. Si può anche fare, continua Rizzo, “ma non si può giustificarlo dicendo che “si è liberato spazio fiscale”. È un’illusione”. Le conseguenze si vedono: “Il rapporto debito/pil sta scendendo ma meno del previsto”. L’anno prossimo è dato in discesa di 0,7 punti e nel 2025 di 0,5 punti, mentre la Nadef dello scorso autunno prevedeva un calo di 2,3 punti tra 2023 e 2024 e altri 1,1 nel 2025.

Nel 2024, va ricordato, non sarà più attiva la clausola di salvaguardia che dallo scoppio della pandemia ha consentito di sospendere l’applicazione del Patto di stabilità. Gli Stati dovranno garantire la “sostenibilità del debito a medio termine”, ha avvertito la Commissione Ue, e “che il disavanzo di bilancio sia al di sotto del valore di riferimento del 3% del pil a medio termine”. Mercoledì l’esecutivo europeo presenterà la sua proposta legislativa di riforma della governance economica. Secondo la comunicazione iniziale di Bruxelles si sarebbe dovuto guardare solo all’evoluzione della spesa in un’orizzonte di quattro anni, nell’ambito di piani da concordare tra il singolo governo e la Commissione. I Paesi membri hanno chiesto criteri misurabili e uguali per tutti: secondo Berlino i più indebitati dovrebbero tagliare il debito di almeno l’1% l’anno.

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