La destra italiana è “incompatibile” con “qualsiasi nostalgia del fascismo“. Il gesto della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel giorno della Liberazione dal nazifascismo, si racchiude in questo pensiero consegnato a una lettera pubblicata dal Corriere della Sera. Un testo molto lungo in cui la premier sottolinea come il 25 aprile 1945 fu uno “spartiacque per l’Italia” e che viene pubblicato alcuni giorni dopo la visita della presidente alla partigiana Paola Del Din, che oggi ha 99 anni. “Durante la Resistenza combatteva con le Brigate Osoppo, le formazioni di ispirazione laica, socialista, monarchica e cattolica – racconta la stessa premier nella lettera – Fu la prima donna italiana a paracadutarsi in tempo di guerra. Il suo coraggio le è valso una Medaglia d’oro al valor militare, che ancora oggi, quasi settant’anni dopo averla ricevuta, sfoggia sul petto con commovente orgoglio”. A Del Din la premier attribuisce queste parole: “Il tempo ci ha ribattezzati Partigiani, ma noi eravamo Patrioti, io lo sono sempre stata e lo sono ancora”. Nell’Italia repubblicana – prosegue Meloni – Del Din è stata insegnante di Lettere e, nonostante i suoi quasi cento anni, continua ad accettare gli inviti a parlare nelle scuole di Italia e del valore della Libertà. Dedico questo giorno a lei, madre di quattro figli e nonna di altrettanti nipoti, ma anche, idealmente, di tutti gli italiani che antepongono l’amore per la propria Patria a ogni contrapposizione ideologica”.
La lettera al Corriere della presidente del Consiglio Meloni può essere significativa dal punto di vista politico perché arriva dopo settimane di incertezze, imbarazzi e scivoloni sia della stessa Meloni (che riuscì a dire che i 335 morti delle Fosse Ardeatine sono stati uccisi “solo perché italiani”) sia del partito che guida e che ora si trova ai vertici dello Stato (l’esempio è il presidente del Senato Ignazio La Russa che ha cercato di confondere i contorni dell’azione partigiana di via Rasella parlando dei militari nazisti come “una banda di musicisti semi-pensionati”). Ma non sembra spostare di molto – né in avanti né indietro – quanto già ascoltato dalla capa del governo negli ultimi mesi, per esempio nel suo discorso di insediamento quando con una formula un po’ più contorta affermò di non aver “mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici: per nessun regime, fascismo compreso“. Questo nuovo testo, ora, arriva dopo l’appello del leader che portò alla svolta di Fiuggi, Gianfranco Fini, che rottamò il Msi e fondò An e proprio domenica ha invitato Fratelli d’Italia a dire di “riconoscersi nei valori antifascisti“. Non è questa però la scelta della presidente del Consiglio. Meloni, nella lettera al Corriere, definisce il 25 aprile “un momento di ritrovata concordia nazionale“, sottolineando tuttavia di avere “la serenità di chi queste riflessioni le ha viste maturare compiutamente tra le fila della propria parte politica ormai 30 anni fa, senza mai discostarsene nei lunghi anni di impegno politico e istituzionale”. La premier spiega di non aver mai rinnegato Fiuggi, insomma, e piuttosto chiarisce che, “come ogni osservatore onesto riconosce”, i partiti che “rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo“.
Subito dopo questa dichiarazione di rifiuto di “nostalgie”, peraltro, segue una disamina (più estesa del passaggio dell’incompatibilità con “qualsiasi nostalgia”) sul post-25 aprile. Tra le altre cose la presidente del Consiglio fissa il 25 aprile come “spartiacque” ma lo lega a un elenco che presenta un ordine un po’ sparso: “La fine della Seconda guerra mondiale, dell’occupazione nazista, del Ventennio fascista, delle persecuzioni anti ebraiche, dei bombardamenti e di molti altri lutti e privazioni che hanno afflitto per lungo tempo la nostra comunità nazionale”. In realtà, come tutti sanno, il 25 aprile fu il giorno del proclama di insurrezione generale (scandito da Sandro Pertini) in tutti i territori ancora occupati e quindi fu l’ordine a tutte le forze partigiane del Nord Italia per l’attacco finale a fascisti e nazisti (“Arrendersi o perire” fu la formula usata da Pertini da imporre ai nemici occupanti). E ancora una volta da nessuna parte, nella lettera al Corriere, viene ricordato che tutte quelle sciagure messe in fila (anche se con un ordine sui generis) furono responsabilità esclusive del fascismo: lo furono le privazioni e i lutti (di chi si opponeva al regime), lo furono le leggi razziali (in vigore da 7 anni prima della Liberazione e applicate a pieno regime durante la Repubblica di Salò), lo fu l’ingresso in guerra (peraltro a dispetto delle condizioni disastrose delle forze armate italiane). Tutte scelte libere e autonome del fascismo e del suo Duce.
Eppure nella lettera la premier Meloni si sofferma più a lungo sui due temi che occupano sempre un posto nel racconto della destra sulla Resistenza: gli anni del “sangue dei vinti” e le foibe. “Purtroppo – scrive la presidente del Consiglio – la stessa data non segnò anche la fine della sanguinosa guerra civile che aveva lacerato il popolo italiano, che in alcuni territori si protrasse e divise persino singole famiglie, travolte da una spirale di odio che portò a esecuzioni sommarie anche diversi mesi dopo la fine del conflitto”. Dall’altra parte, continua, è doveroso ricordare che, mentre quel giorno milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà, per centinaia di migliaia di nostri connazionali di Istria, Fiume e Dalmazia iniziò invece una seconda ondata di eccidi e il dramma dell’esodo dalle loro terre”. Vicende tragiche, su cui la storiografia (e non si parla dei bestseller di Giampaolo Pansa) ha scritto moltissimo, che tuttavia non possono essere raccontate come se fossero sospese nel tempo, come se non fossero legate a triplo filo con un regime liberticida che faceva largo uso della violenza da oltre vent’anni. Vicende che – proprio in base alle analisi storiografiche – difficilmente possono essere portate in dote per presentare un improbabile punteggio di “pareggio” (se questa è l’intenzione della premier così come lo è stato per decenni quella del suo centrodestra).
Ad ogni modo, concede Meloni “il frutto fondamentale del 25 aprile è stato, e rimane senza dubbio, l’affermazione dei valori democratici, che il fascismo aveva conculcato e che ritroviamo scolpiti nella Costituzione repubblicana”, prodotto di un “paziente negoziato volto a definire princìpi e regole della nostra nascente democrazia liberale” e “che si dava l’obiettivo di unire e non di dividere”. Ma anche qui la premier non disdegna un inciso sul fatto che la nascita della democrazia liberale fu un “esito non unanimemente auspicato da tutte le componenti della Resistenza”. Probabilmente il riferimento è a un pezzo del Pci, ma anche qui la ricostruzione fa un po’ la lotta con la Storia di cui bisogna ricordare almeno due fatti simbolici, cioè la Svolta di Salerno (con cui i comunisti dettero priorità alla sconfitta del fascismo e alla fine della guerra rispetto all’affermazione dei propri obiettivi ideologici) e la firma sulla Costituzione del presidente dell’Assemblea Costituente, Umberto Terracini, comunista già a partire dalla scissione di Livorno.
Gli anni della “difficile transizione”, prosegue nella sua ricostruzione la premier, passarono dal “passaggio significativo con l’amnistia voluta dall’allora ministro della Giustizia Togliatti” e poi dal fatto che “i costituenti affidarono dunque alla forza stessa della democrazia e della sua realizzazione negli anni il compito di includere nella nuova cornice anche chi aveva combattuto tra gli sconfitti e quella maggioranza di italiani che aveva avuto verso il fascismo un atteggiamento ‘passivo'”. Ma Meloni usa l’avverbio “specularmente” per dire che nel frattempo “chi dal processo costituente era rimasto escluso per ovvie ragioni storiche, si impegnò a traghettare milioni di italiani nella nuova repubblica parlamentare, dando forma alla destra democratica. Una famiglia che negli anni ha saputo allargarsi, coinvolgendo tra le proprie fila anche esponenti di culture politiche, come quella cattolica o liberale, che avevano avversato il regime fascista”. Il riferimento è al Movimento sociale di Giorgio Almirante che prima del 1945 aveva scelto il fascismo, aveva scelto le leggi razziali e aveva infine scelto Salò. “È nata così – conclude Meloni – una grande democrazia, solida, matura e forte, pur nelle sue tante contraddizioni, e che nel lungo Dopoguerra ha saputo resistere a minacce interne ed esterne, rendendo protagonista l’Italia nei processi di integrazione europea, occidentale e multilaterale”.
Da qui il discorso di Meloni prende una piega più polemica contro “coloro che si considerano i custodi di questa conquista” e che allo stesso tempo – aggiunge – negano “l’efficacia, narrando una sorta di immaginaria divisione tra italiani compiutamente democratici e altri — presumibilmente la maggioranza a giudicare dai risultati elettorali — che pur non dichiarandolo sognerebbero in segreto un ritorno a quel passato di mancate libertà“. E anche contro “quanti, in preparazione di questa giornata e delle sue cerimonie, stilano la lista di chi possa e di chi non possa partecipare, secondo punteggi che nulla hanno a che fare con la storia ma molto hanno a che fare con la politica”. La presidente del Consiglio sottolinea che viene usata l’accusa di “fascismo” per delegittimare l’avversario politico: “Una sorta di arma di esclusione di massa, come ha insegnato Augusto Del Noce, che per decenni ha consentito di estromettere persone, associazioni e partiti da ogni ambito di confronto, di discussione, di semplice ascolto. Un atteggiamento talmente strumentale che negli anni, durante le celebrazioni, ha portato perfino a inaccettabili episodi di intolleranza come quelli troppe volte perpetrati ai danni della Brigata ebraica da parte di gruppi estremisti. Episodi indegni ai quali ci auguriamo di non dover più assistere”.
Nel finale la presidente del Consiglio ribadisce il pacchetto di “testi di riferimento” su cui batte spesso la destra per un percorso di “memoria condivisa“. Il primo è il discorso di Luciano Violante all’insediamento come presidente della Camera nel 1996, nel quale l’allora esponente dei Ds rilevò “una certa ‘concezione proprietaria’ della lotta di Liberazione uno dei fattori che le impedivano di diventare patrimonio condiviso da tutti gli italiani”. Il secondo è l’intervento di Silvio Berlusconi, allora capo del governo, a Onna, in Abruzzo, nel quale spuntò la proposta di ribattezzare la festa della Liberazione come “festa della Libertà“. Una proposta che Meloni si sente di “rinnovare” perché “a distanza di 78 anni l’amore per la democrazia e per la libertà è ancora l’unico vero antidoto contro tutti i totalitarismi. In Italia come in Europa”. A questo, e alla condanna di “tutti i regimi del Novecento, senza eccezioni”, si lega il riferimento della presidente del Consiglio “alla eroica resistenza del popolo ucraino in difesa della propria libertà e indipendenza dall’invasione russa”. Nel bipolarismo tra democrazie e autocrazie, dice ancora la capa del governo, “l’Italia la sua scelta di campo l’ha fatta, ed è una scelta netta. Stiamo dalla parte della libertà e della democrazia, senza se e senza ma, e questo è il modo migliore per attualizzare il messaggio del 25 Aprile. Perché con l’invasione russa dell’Ucraina la nostra libertà è tornata concretamente in pericolo”.