Marco Bernardini, giornalista e scrittore di sport e non solo, autore televisivo per Sky e La7, è stato legato da un’amicizia fraterna con Edoardo Agnelli, il primogenito dell’Avvocato scomparso tragicamente il 15 novembre del 2000. Esce oggi in libreria “Edoardo. L’intruso tra gli Agnelli”, il suo ritratto dell’erede dell’impero Fiat che non si fece mai re, l’utopista, il sognatore di una fabbrica illuminata e di un potere basato anche sulla solidarietà. IlFattoQuotidiano pubblica in anteprima esclusiva la prefazione al libro scritta dal regista Mimmo Calopresti e un’intervista all’autore.
Perché questo libro oggi? La figura di Edoardo non appartiene ormai al passato, alla storia privata degli Agnelli?
Apparterrebbe al passato se fosse stata letta fin da subito in modo corretto. Ma non è così: la figura di Edoardo Agnelli è stata raccontata in modo non solo ambiguo ma anche sbagliato. Si è detto che era una persona gentile, un’anima sensibile, ma non si è mai voluti andare oltre. Io credo che sia doveroso, anche dopo vent’anni, fare emergere quella che è stata la figura reale di Edoardo, rendere giustizia e omaggio a un personaggio che è molto ma molto di più di quello che si è raccontato di lui e soprattutto dei pettegolezzi che sono usciti. E poi questo libro, a Edoardo l’avevo promesso. Mi disse: “Se mai ti capitasse, racconta qualcosa di me”. Il debito credo di averlo saldato.
Quando hai conosciuto Edoardo?
Il primo impatto è stato drammatico. Scendevo le scale dello spogliatoio dello stadio Heysel, quel 29 maggio 1985. Fuori c’erano allineati i morti di quella tragedia immane, di quella mattanza. Seduto a metà della scalinata c’era un ragazzo. Lì per lì non lo riconobbi, anche perché era appena arrivato dagli Stati Uniti e non era una figura fisicamente nota. Mi dissero: quello è Edoardo. Edoardo Agnelli. Piangeva. Mi sedetti accanto a lui e cominciammo a parlare della tragedia che avevamo davanti agli occhi. Così nacque la nostra amicizia. Due mesi dopo, ad agosto, io ero a Villar Perosa per la “vernice” classica della Juventus. Mi dissero: venga su in villa perché c’è Edoardo che la aspetta. Ci incontrammo, e venne fuori un’intervista incredibile, che fece scalpore. Edoardo attraverso di me aveva esternato le sue prime dichiarazioni potenti e importanti, sulla Juve e sulla sua visione dell’impero Fiat e del mondo.
Veniamo a quel giorno e a quel salto definitivo nel vuoto.
È difficile e ancora doloroso parlare di questa cosa. La mia reazione fu quella della disperazione, perché quando perdi un amico… C’è stato un rapporto di quindici anni di amicizia fra noi, ma di amicizia autentica. È stato come perdere una sorta di fratello. No, francamente non me l’aspettavo, e anch’io venni lì per lì assalito da quei dubbi che poi vennero sviluppati da una parte della stampa, fino ai complottismi e alle storie che erano completamente campate in aria.
Questo libro esce in un momento delicato per la “saga” della famiglia Agnelli, tra la vicenda dell’eredità contesa da Margherita e i guai giudiziari della Juventus. Non è casuale, immaginiamo.
Sì, è un momento di disfacimento totale. Prima di tutto della Fiat come industria che non esiste più; e poi della stessa famiglia Agnelli che si è polverizzata. Alla griffe Agnelli è subentrata la griffe Elkann. Io mi pongo qualche domanda, e la principale è: cosa accadrebbe se Edoardo fosse ancora vivo, ma soprattutto se fosse ancora vivo Giovannino Agnelli, il figlio di Umberto. Sono assolutamente convinto che, se Giovanni Agnelli non fosse stato ucciso dal cancro fulminante al fegato, la storia della Fiat non sarebbe quella di qualcosa che non esiste più, ma sarebbe ancora una storia italiana. E soprattutto sono convinto che anche Edoardo sarebbe vivo. Lo dico perché Giovannino aveva promesso al cugino che, quando lui avrebbe preso il comando come da volontà dell’Avvocato, avrebbe fatto di tutto perché lo stesso Edoardo potesse fare ciò che più desiderava della propria vita: occuparsi del sociale, della resilienza, di un concetto di impresa che tiene conto della solidarietà. Tutte quelle cose che Edoardo si portava dentro e che non era mai riuscito a realizzare per questa assoluta incomunicabilità che esisteva tra lui e il padre. Per l’Avvocato la morte del figlio Edoardo è stata certamente la sconfitta più grande.
Ecco la prefazione in anteprima esclusiva:
L’essere stato il figlio dell’avvocato Gianni Agnelli non deve essere stato facile.
Deve essere stata una tragedia continua, deve essere stata una continua lotta a contrapporre se stessi a un uomo più grande, più importante di te. Un uomo che ti assomigliava, che sembrava come te nel suo modo di essere e nel suo fare, nel suo esprimersi. Che ti sembrava facile nell’imitare, nell’atteggiarsi a come era lui.
Ma così non era. Era sempre prima e davanti a te. Era prima di te in qualunque cosa facesse, in qualunque cosa dicesse, in qualunque cosa addirittura pensasse. Sempre primo e tu dietro ad arrancare, a provare ad essergli vicino, se non uguale, ma non c’era niente da fare. Era sempre il primo, il migliore, il solo capace di dire e fare la cosa giusta. Almeno così ti era sembrato per molto tempo, quando eri stato un figlio devoto, quando eri stato un figlio incapace di ogni critica, silenzioso e attento a essere all’altezza della situazione. Silenzioso anche quando ti sembrava che era arrivato il momento di dire la tua, ma ancora, ti accorgevi, non era necessario il tuo punto di vista, il tuo interloquire a tavola con il resto della famiglia o magari in una serata con i tuoi coetanei, di passaggio nella villa lassù in alto, nella Torino che domina il mondo, non solo la città che allora era la città della Fiat.
La grande fabbrica delle automobili, la Fiat, ti era stata lontana, l’avevi guardata ma mai ti eri avvicinato, ti faceva paura tutto quel muoversi a realizzare, a costruire, a rendere tutto così facile, meccanico così poco creativo. Fare automobili per milioni di persone per essere uomini nuovi, per essere persone che correvano nella modernità, che attraversavano il Paese in tutte le direzioni, che si lasciavano indietro migliaia di chilometri su strade asfaltate da non molto tempo e che ti lasciavano un senso di nuovo e di eccezionale. Ma questo momento di euforia era di tuo padre, della sua capacità di creare rapporti internazionali, di avere sempre a portata di mano i potenti del mondo, di essere insieme a chi contava davvero nel Paese, che era stato un Paese in guerra per molti anni e ora in pace prosperava e cominciava la sua vera rivoluzione industriale. Tuo padre che da piccolo ti abbandonava a casa per andare a vedere vincere la sua Juventus, la sua squadra di football costruita per vincere tutto quello che c’è da vincere. A te non restava che l’ammirazione per la grande fabbrica, per la grande squadra, per la grande storia che stava costruendo l’avvocato Agnelli: tuo padre.
E poi cominciò un’altra stagione. La stagione dello studio, dei viaggi, della conoscenza del mondo. La conoscenza del reale dopo la fiction che non finiva mai, e che sarebbe potuta durare tutta la vita. I tuoi viaggi alla scoperta dell’universo e alla tua scoperta, i viaggi nei luoghi lontani dalle colline torinesi a raggiungere i luoghi delle rivoluzioni, oppure i viaggi lisergici nati per conoscere se stessi e per condividere con gli altri i mondi senza confini, senza i limiti imposti dal nascere, dall’avere sempre e solo la propria famiglia come riferimento. E poi ancora molto altro: i sogni, i voli pindarici nello studio, il continuo riferimento ai cambiamenti del mondo. Tutto per dire che ci sono anch’io: Edoardo Agnelli. Non solo il figlio dell’Avvocato, ma proprio io, Edoardo, capace ormai di essere l’erede di questo padre grande e importante. Capace di dirigere la Fiat, capace di andare in panchina a guidare la Juventus, capace di smettere di essere un figlio e diventare adulto insieme agli altri adulti, insieme agli avvocati che progettavano come affrontare la crisi del settore automobilistico, come occuparsi della nuova Juventus, come occuparsi dell’Italia che cambiava. Come riuscire a essere un grande uomo tra i grandi e soprattutto essere pronto a sostituire il padre nel suo ruolo di chi doveva dirigere. Tutto sembrava naturale a quel giovane uomo: diventare l’erede e specificare a se stesso e agli altri che era arrivato il suo tempo. Ma così non successe mai, non divenne mai quel che doveva essere, mai sembrava arrivare il tempo del suo ingresso nel mondo degli adulti di chi doveva cominciare ad avere responsabilità importanti, di chi doveva essere il nuovo capo e il nuovo leader di un mondo che gli sembrava ormai suo. Allora un giorno decise di fare un volo importante: partire dall’alto e arrivare in basso. Volare dall’alto e scendere in basso, laggiù in fondo a un canalone, dove l’aspettava la gloria. Il suo podio era sotto un ponte da cui si buttavano quelli che la vita l’avevano lasciata, in un giorno qualsiasi, a quelli che rimanevano a raccontare agli altri i loro trionfi e i loro addii, le loro giornate particolari e i giorni senza fine, senza niente e nient’altro che il vivere a casaccio. E il giorno che vivere a casaccio non andava più bene a quel ragazzo lungo, bello e senza nessun fine preciso, il giorno che si lasciò volare giù e costrinse suo padre a scendere in basso e inginocchiarsi davanti a lui e sentirsi bene perché era diventato quello che doveva essere, un uomo che aveva preso una decisione importante, che aveva obbligato suo padre a essere un padre che piangeva un figlio senza nessuna altra possibilità che lasciare scorrere le sue lacrime senza fine e senza possibilità di confonderle con nient’altro. E il rapporto padre figlio cominciò veramente, un padre davanti a un figlio morto che cominciava a morire anche lui. L’avvocato Agnelli moriva ed Edoardo Agnelli cominciava a vivere.