Società

Il 25 aprile celebriamo anche la fine dell’ultima guerra che credevamo possibile. Ma ora ci risiamo

Poiché è appena trascorsa una giornata particolare, la Festa della Liberazione, mi permetto di condividere alcune considerazioni, forse banali, sui cambiamenti politici, sociali e culturali che stanno scombinando la vita degli europei, improvvisamente in guerra a loro insaputa. Poiché sono affatto digiuno di geopolitica, il lettore può chiudere subito questa pagina. Non merito rispetto su questo tema. Se, invece, qualcuno può aiutarci a comprendere un po’ meglio il nostro tempo, il suo commento è benvenuto e apprezzato. Perché siamo nuovamente in guerra?

Per la mia generazione, i baby boomer nati nel ventennio seguito al secondo conflitto mondiale, la guerra era una eventualità estranea e remota. Affatto obsoleta, se declinata in Europa dove la guerra era stata soppiantata da altre forme di conflitto: finanziario, economico, calcistico. La parentesi delle guerre balcaniche degli anni ’90 era stata liquidata sotto l’etichetta di guerra civile. E la convinzione che la guerra in Europa fosse una ipotesi vintage è durata quasi 80 anni, fino alla pandemia che ha affossato molte certezze.

Questa convinzione si basava su tre pilastri. Il primo era la guerra fredda. Il conflitto globale tra le due superpotenze nucleari, Stati Uniti e Unione Sovietica, aveva eliminato perfino l’idea che l’Europa si potesse trasformare in un teatro bellico, ospitare ostilità in campo aperto. Per via della consapevolezza sul potenziale delle armi atomiche, acquisita dall’umanità una volta per tutte nel lontano Giappone, il conflitto Est-Ovest era giocoforza costretto a restare freddo. Guerre isolate tra singoli stati europei non erano neppure concepibili. E l’eventualità di un terzo disastro a Zaporizhzhia, la cui grande diga era stata distrutta due volte nel corso della seconda guerra mondiale, era solo una fantasia fantapolitica.

La combinazione tra democrazia e indipendenza economica era il secondo caposaldo. Le norme democratiche lavoravano contro l’uso della forza nelle relazioni internazionali. E pesi e contrappesi dei sistemi democratici rendevano la vita difficile ai “falchi” che fossero eventualmente assurti al ruolo di decisori politici: come fare a imbarcarsi in avventure belliche senza il consenso del popolo, in democrazia? Il presupposto, affatto ragionevole, era l’economia: un popolo benestante, timoroso di perdere l’indipendenza economica e il welfare, è del tutto ostile alla guerra, qualunque guerra.

Il terzo pilastro era l’aspirazione europea a creare una comunità sicura in cui convivere. I popoli possono comportarsi reciprocamente in modo ostile oppure amichevole. In Europa, l’atavico sentimento dell’inimicizia aveva lasciato definitivamente posto all’amicizia come valore principe della convivenza. A partire dalla Comunità del Carbone e dell’Acciaio di 70 anni fa, furono le relazioni franco-tedesche a imboccare per prime questa strada. E, in tutta Europa, l’ideale di appartenere a una comunità sicura si era poco a poco trasformato in politiche attive.

Nonostante che nessuna guerra sia stata dichiarata, l’Europa è comunque in guerra. E l’Italia non manca all’appello, anche se il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali è un fondamento della Costituzione della Repubblica Italiana. Siamo in guerra perché questi tre pilastri sono franati. La guerra fredda terminò prima della fine del secolo per abbandono di uno dei due contendenti. Lo sapevamo e ne abbiamo sottovalutato le conseguenze. Il resto lo stiamo scoprendo ora. La pace come esito dell’alchimia positiva tra democrazia e indipendenza economica si sta rivelando una utopia. Dall’età della sicurezza siamo transitati in quella dell’incertezza, dove la tecnologia non riduce ma accresce l’ansia di vivere.

Queste spiegazioni, lo ammetto, sono molto, troppo semplici, forse pure stupide. Dobbiamo però fare lo sforzo di capire perché siamo in guerra a nostra insaputa. Ogni guerra è diversa dalle precedenti e solo i posteri potranno delineare i tratti caratteristici di ciò che sta accadendo, sul filo di guerra finora tiepida. Nel Novecento, l’Italia era entrata in guerra per ragioni comprensibili a tutti e condivise da molti: presenza mediterranea (1911), tardo irredentismo (1915), conquista coloniale (1935). E “per spezzare le catene di ordine territoriale e militare che ci soffocano nel nostro mare” (1940, discorso di Mussolini alla nazione del 10 giugno).

Ieri abbiamo festeggiato non soltanto la Liberazione ma anche la fine di quella guerra, la seconda mondiale, che credevamo l’ultima delle grandi guerre. Perché, da un anno e più, siamo di nuovo in guerra?