Diceva François Truffaut che un film per essere riuscito deve esprimere un’idea del cinema e un’idea del mondo. L’ultimo film di Nanni Moretti, Il sol dell’avvenire, uscito ora in Italia e in concorso al prossimo festival di Cannes, fa perfettamente questo. Lo fa in un modo denso e intenso, accumulando idee, citazioni, ritorni tematici, richiami.
Non è un caso che Moretti sia uno degli autori ai quali Cannes rende sempre omaggio: rigore, cinefilia, marca autoriale, autobiografia, capacità di esprimere con pochi tocchi una visione del mondo si combinano in dosi variabili in tutti i suoi film. E questa miscela è tipica dei film di Cannes. Non sempre la miscela riesce nello stesso modo a Moretti, a volte prevale un certo moralismo scettico o pessimista. Qui invece gli elementi si sorreggono in un equilibrio quasi miracoloso, attraverso il racconto di un maturo regista (non più Nanni, ora Giovanni) alle prese con un film sul tempo.
Sul tempo passato, perché la storia è ambientata nel 1956, nel momento della repressione russa in Ungheria vista attraverso la vicenda di un circo ungherese casualmente in tournée in Italia e di un segretario di sezione comunista (Silvio Orlando) colto da una crisi di identità politica. Ma anche sul tempo presente e sul futuro. Nel presente c’è il ménage in crisi tra Giovanni e la moglie Paola (Margherita Buy), produttrice tanto decisa nel lavoro quanto incerta sul piano della coppia, intenzionata a lasciare il marito ma incapace di farlo perché in fondo, come dice allo psicanalista, “parliamo di tutto tranne che di noi due”.
E nel presente c’è anche la vita dei set, attraverso cui passa un’idea del mondo, un’etica e non solo un’estetica, come dice Giovanni quando va sul set di un giovane regista che sta girando una scena di violenza gratuita. Qui c’è il Moretti cinefilo e filosofo, che cita Kieslowski ed echeggia la tirata su Henry, pioggia di sangue in Caro diario. Nel futuro c’è l’immaginario, la storia fatta anche con i “se”, contrariamente a quanto dice la vulgata.
C’è dunque un mondo che finalmente si ricompone, dopo tante dissonanze. E che si ricompone nel cinema e grazie ad esso. Sì perché il film al fondo è un film di dissonanze: Giovanni sperimenta su di sé e sul mondo che lo circonda, sia affettivamente che professionalmente, tutto ciò che “stona”: la sceneggiatura che non va bene, la separazione a cui non si rassegna, la figlia innamorata di un uomo molto maturo (Jerzy Stuhr, altro autore di cinema), la mancanza di etica sul set ma anche nel mondo, con l’ideologia che prevale sulla passione, come mostrano i titoli a nove colonne sull’Unità. E anche Giovanni inizialmente è stonato quando canta in macchina per prepararsi a una scena che poi il coro sul set intonerà bene.
Moretti autore guarda questo mondo con distacco e quasi con sospetto, Moretti interprete accentua la recitazione scandita che lo contraddistingue. Le battute sono come riportate, menzionate, re-citate. Come se fosse doveroso non integrarsi, anche visivamente, anche attorialmente. Non può esserci punto d’incontro infatti tra i rappresentanti di Netflix – possibili coproduttori del film nel film – e Giovanni.
Il colloquio che li vede protagonisti segna l’abisso tra Moretti/Giovanni e il mondo Netflix: lui cita i Taviani di San Michele aveva un gallo, loro ripetono allo sfinimento che Netflix si vede in 190 paesi nel mondo e che al film di Giovanni manca il momento “what the fuck”. È lo scontro simbolico tra l’immaginario omologato della maggioranza, quella maggioranza in cui in Caro diario Moretti dichiarava di non credere, e la sua visione matura e critica. Così, se il mondo va verso Netflix, Moretti costruisce nel film un “altro” mondo, un mondo non allineato, dove Renzo Piano, Chiara Valerio e Corrado Augias fanno la parte di se stessi e dove la musica, quasi sempre italiana, sembra l’unico elemento con il quale, forse, ci si può accordare.
In questo mondo “altro” il cinema irrompe continuamente in una sorta di metadiscorso necessario: le citazioni si sprecano, da Jacques Demy a Cassavetes, da Scorsese ai Blues Brothers, dal Fellini della Dolce vita all’Humphrey Bogart suggeritore in Provaci ancora, Sam di Woody Allen. E anche le autocitazioni: c’è (quasi) tutto il cinema precedente di Moretti in Il sol dell’avvenire, richiamato in molti modi lungo tutto il film fino, soprattutto, al finale.
Come dice il produttore a Giovanni parlando del film nel film, “il tuo film è sovversivo”.
Ma il discorso vale anche per Il sol dell’avvenire: che smonta l’immaginario corrente per fare un film sospeso. Sospeso come gli acrobati che volteggiano in aria nel circo, la vera metafora del cinema di oggi.