Psicanalista, filosofo, attivista, agitatore culturale, Miguel Benasayag, intellettuale nato in Argentina naturalizzato francese, è una figura d’indubbio interesse, non solo per la passione delle sue idee, ma per il coraggioso e dolente ruolo di testimone del male.
In gioventù, durante gli anni più bui della dittatura argentina degli anni ‘70, Benasayag, da militante nelle file guevariste dell’ERP, venne arrestato e torturato in carcere. Una volta liberato e approdato in Francia, il filosofo, perennemente controcorrente, ha rielaborato le proprie drammatiche esperienze nell’ambito dell’antipsichiatria, muovendosi in un terreno di mezzo tra ricerca scientifica e ideale libertario.
Tra i fondatori del collettivo Malgré Tout, autore del Piccolo manifesto in tempi di pandemia (pubblicato da Nottetempo), negli ultimi anni Miguel Benasayag si è imposto tra le voci più determinate e puntuali sul tema della libertà individuale. Ricordo un suo intervento molto coinvolgente durante il Festival Prendiamola con Filosofia organizzato da Tlon, in cui invitava a La Responsabilità della Rivolta (titolo dell’ e-book che ne è stato tratto), come anche il suo Elogio del conflitto, scritto con Angélique del Rey (Feltrinelli).
Il suo sguardo, insieme radicale ma aperto alla complessità, si ritrova pienamente in un libro, pubblicato ora da Jaca Book, ovvero Malgrado tutto. Percorsi di vita, sorta di compendio autobiografico del suo percorso intellettuale. Il volume raccoglie due testi cruciali nella sua carriera (il primo di quasi quarant’anni fa, il secondo di poco più di venti) in un’unica edizione.
Il racconto della vita dell’autore emerge nel dialogo con due stimati sodali; la prima parte, Malgrado tutto, risalente a poco dopo i drammatici anni argentini, è una conversazione con Teodoro Coen (col quale Benasayag ha pubblicato anche Cinque lezioni di complessità e, per l’appunto, Del dialogo nella complessità), la seconda, Cammino, di fine anni ‘90 ha come interlocutrice Anne Dufourmantelle, filosofa collaboratrice di Jacques Derrida, tragicamente scomparsa nel 2017, a soli 53 anni, mentre cercava di salvare due bambini dall’annegamento in mare.
Ho avuto il piacere di contattare Benasayag, persona dall’entusiasmante vivacità intellettuale, il quale mi ha illustrato le differenze tra i due testi: “Il primo, con Coen, è nato, poco dopo il mio arrivo a Parigi, dall’urgenza di scrivere per comprendere e rielaborare cosa era accaduto negli anni in carcere. Mettendo per iscritto quelle esperienze ho avuto la possibilità di riflettere, di trasmettere anche a me stesso ciò che era successo. Il secondo, con Dufourmantelle, è stato l’inizio di un percorso di impegno sociale e ricerca scientifica, ho provato a comunicare, in un mondo sempre più fortemente disciplinare, il racconto di una libertà possibile”.
Anche in prigione la condizione di libero arbitrio permane, come testimonia il memorabile incipit di Shantaram di Gregory David Roberts, di cui riporto un estratto: “Fra le urla silenziose che mi squarciavano la mente riuscii a comprendere che nonostante i ceppi e la devastazione del mio corpo ero ancora libero: libero di odiare gli uomini che mi stavano torturando oppure di perdonarli.”
Questa libertà interiore sembra il comandamento principale per Benasayag, che mi ha ribadito: “In questo mondo comandato dal digitale, governato da una normatività che è desiderata dalle persone, dobbiamo cercare un percorso di libertà. La schiavitù del benessere, del consumo lascia sempre meno posto all’umano, pensiamo all’intelligenza artificiale: in questo mondo ‘perfetto’, dominato dalle macchine, ma in cui contrariamente all’utopia tecnofila le macchine non sono al servizio dell’uomo, qual è il posto dell’essere umano? Questa è la sfida radicale che abbiamo davanti”.
Una sfida che già più di venti anni fa aveva intuito e lanciato con le parole potenti che concludono il volume pubblicato da Jaca Book: “I nostri contemporanei pensano che essere liberi significhi esercitare il proprio libero arbitrio, nell’ambito di una vita che, finalmente affrancata dalle catene della colpa, si sbarazzerebbe contemporaneamente anche di ogni ‘dover fare’, di ogni responsabilità. In realtà, essere liberi significa farsi carico di tutto il peso di un destino: pur senza averlo deciso, beninteso, io sono responsabile della mia storia (…) Il punto è lottare contro la tristezza che continua a guadagnare terreno – ma lottare per e con la gioia della vita”.