“Non rinnegare, non restaurare” – sono le parole che Augusto De Marsanich (segretario e poi presidente di quel Movimento Sociale Italiano che nel simbolo riproduceva la fiamma ardente sulla tomba di Mussolini) consegnava a Giorgio Almirante, redattore della rivista fascista La difesa della razza, fucilatore di partigiani, padre politico della generazione oggi al governo del Paese, a partire da La Russa, Gasparri e la più giovane Giorgia Meloni.

“Non rinnegare, non restaurare” si può dire sia la linea di tutta la lettera che due giorni fa la Presidente del Consiglio ha consegnato alle pagine del Corriere della Sera per dire la sua sul 25 aprile.

Oltre all’ormai consolidato marchio di fabbrica dell’estrema destra: il “piagnonismo”. Piangono, si dipingono come vittime, come gli esclusi dal gioco democratico per via dell’uso della “categoria del fascismo come strumento di delegittimazione di qualsiasi avversario politico: una sorta di arma di esclusione di massa”. Meno male che però “massa” i fascisti, dopo la vittoria dei partigiani, non erano.

Giorgia Meloni, nella prima parte della lunga missiva, evidenzia che “i partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”. E certo nessuno può credere che Meloni & co. vogliano il ritorno delle camicie nere, dell’orbace e dell’olio di ricino. La storia non si ripresenta mai uguale a se stessa. Ed era quanto avevano capito già gli esponenti del Msi, quanto meno nel loro discorso pubblico, tanto da produrre il monito del “non restaurare”.

Subito dopo aver però affermato l’importanza del 25 aprile perché data in cui “milioni di italiani tornarono ad assaporare la libertà” e che permise di aprire la strada alla “affermazione dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato”, torna tutto il repertorio dell’estrema destra, dal Msi a oggi.

I partigiani che non depongono le armi e continuano a cercare giustizia contro i fascisti che per vent’anni li avevano magari privati del pane (oltre che della libertà), gli italiani vittime delle violenze dei partigiani titini in Istria, Fiume e Dalmazia (“iniziò una seconda ondata di eccidi”), i comunisti contrari alla democrazia liberale (“esito non unanimemente auspicato da tutte le componenti della Resistenza”), dimenticando che presidente dell’Assemblea Costituente che avrebbe condotto a “un testo che si dava l’obiettivo di unire e non di dividere” era quell’Umberto Terracini, tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia e perseguitato dal regime fascista.

A leggere le parole di Meloni, insomma, sembra quasi che il problema siano gli antifascisti. Quelli di ieri e quelli di oggi.

La lettera sul Corriere della Sera è percorsa da una costante ansia di equiparazione di fascismo e antifascismo. Ma su questo la strada le era stata spianata. Da tanti che Meloni cita a profusione. Da Luciano Violante che, da presidente della Camera, parlò dei “ragazzi di Salò” e che ieri, sempre sul Corriere, rilasciava un’intervista dando la patente di “non fascista” a Meloni, arrivando alla risoluzione del Parlamento europeo del settembre 2019 che parificava nazifascismo e comunismo (votata anche dal Pd). La “normalizzazione” dell’estrema destra è un processo che dura da decenni e i cui promotori sono potere economico, mediatico, politico.

Così che oggi Meloni può segnare un gol a porta praticamente vuota. Uno a uno, palla al centro. Tutti colpevoli, nessun colpevole. E italiani brava gente.

Questo 25 aprile, però, le piazze di tutta Italia si sono riempite come non accadeva da anni. Segno che questa data non è semplice memoria, ma disegna l’identità nazionale per un’ampia parte del Paese. Ed è proprio a questa identità che attentano i continui attacchi a “Bella Ciao”, al 25 aprile, all’antifascismo. Come scriveva Orwell, “chi controlla il passato controlla il futuro”. Ed è lì che guardano i nipotini del Duce (copyright di David Broder col suo “Mussolini’s Grandchildren”): non a caso Meloni propone uno slittamento da “Festa della Liberazione” a “Festa della Libertà”, rinverdendo una proposta che a suo tempo (correva l’anno 2009) fu avanzata da colui che, da Presidente del Consiglio, mai partecipò alle celebrazioni del 25 aprile: Silvio Berlusconi.

Quello che Meloni – ma anche tanti liberali – non vedono è che l’eredità della Resistenza non sta solo nella Carta Costituzionale, né solo nella conquista della libertà e della democrazia. Il 25 aprile 1945 rappresenta la vittoria di un popolo finalmente mobilitato, che si scrollava di dosso anni di rassegnazione e passività e che entrava da soggetto e non più da oggetto nel grande gioco della politica. La strutturazione dei grandi partiti nazionali, l’apertura di migliaia di sedi di partito, delle case del popolo, l’altissima partecipazione al voto, le lotte dei lavoratori e delle lavoratrici – che troppo spesso, anche in democrazia, furono affrontate a pallottole dallo Stato – sono il portato della guerra partigiana.

Una partecipazione che si dà all’insegna del conflitto, non dell’obbedienza.

Il 25 aprile come mera ricorrenza, con i suoi riti stanchi, serve a poco. Ma quello che sanno bene Meloni & co. è che dietro quella data c’è un pezzo importante dell’identità popolare. Un’identità mai definitiva, sempre in disputa. Per questo il 25 aprile è oggetto di polemiche ogni anno.

Per questo va ripreso il suo significato più profondo, anche quello rivoluzionario, accuratamente messo di lato dalla lettura liberale di quel processo, e che è condensato nelle parole che Sandro Pertini pronunciò nel 1970 in un discorso alla Camera dei Deputati: “la libertà e la giustizia sociale, […] costituirono un binomio inscindibile, l’un termine presuppone l’altro; non può esservi vera libertà senza giustizia sociale e non si avrà mai vera giustizia sociale senza libertà”.

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