di Savino Balzano
In questi giorni abbiamo riflettuto molto sul valore della Liberazione, in chiave evidentemente storica, del nostro Paese: sull’antifascismo, sulla Resistenza, e intanto abbiamo finalmente assodato che parole come patria, patriota e nazione si possono ancora utilizzare senza rischiare di essere accusati di nutrire una qualche bruna nostalgia (viceversa si dovrebbe mettere in stato d’accusa lo stesso Capo dello Stato).
Ciò che mi ha colpito in queste ore non è la riflessione sul valore storico del 25 aprile o le polemiche connesse a tale riflessione (anche per me ogni occasione è buona per rimarcare, ad esempio, l’assoluta inadeguatezza nel profilo politico, culturale e istituzionale di chi oggi siede sullo scranno più alto di Palazzo Madama) e nemmeno lo stucchevole setacciare tra le parole del Presidente del Consiglio nella sua lettera al Corriere della Sera. Sì, ci può stare tutto: annoia profondamente, nemmeno si capisce quanto sia davvero utile, ma ci può stare.
Ciò che mi colpisce, si fa ovviamente per dire, è l’assoluta assenza di riflessione circa ciò che oggi dovrebbe voler dire liberazione: sì, insomma, la totale assenza di ragionamenti su ciò che oggi ci opprime e sulle catene dalle quali oggi dovremmo volerci liberare. Abbiamo celebrato la liberazione del Paese dal giogo nazifascista, la conquista di democrazia e libertà: ma quanto oggi possiamo definirci davvero liberi di determinare le questioni che ci riguardano come comunità, come nazione, come Paese?
Una vicenda di questi giorni credo fornisca un assist perfetto per ragionare su questo e pongo una semplicissima domanda: come può, ricorrendo ovviamente a mezzi di piena liceità, il popolo italiano ottenere di non essere rappresentato da un uomo come Luigi Di Maio? Credo sia una domanda assolutamente legittima: insomma, oltre a riconoscergli lo zero virgola niente alle elezioni, cosa può fare un popolo per dimostrare di non gradirne la rappresentanza?
La scelta di indicare Di Maio come rappresentante dell’Ue nel Golfo è formalmente legittima: quello che qui si rimarca è infatti l’assoluta divaricazione tra legittimità e legittimazione. Francamente non mi pare per nulla accettabile che l’Unione Europea, non a caso un’accozzaglia completamente priva di qualsivoglia legittimazione democratica, scelga un italiano inviso al governo del Paese e, soprattutto, al suo popolo. Non è una carica elettiva, sissignore, ma non è questo il punto: si dimostra ancora una volta l’atteggiamento autoritario di chi se ne infischia della legittimazione popolare e preferisce premiare certi profili, per ragioni che nulla hanno a che vedere col prestigio istituzionale, peraltro optando per un pentito che fino a qualche anno fa avrebbe votato per l’uscita dall’Euro (a mio avviso avrebbe fatto bene a mantenere quella linea).
La verità è che il nostro è un Paese che, come molti altri, non dispone ormai da tempo di strumenti adeguati a perseguire politiche alla ricerca della felicità collettiva: non possiamo investire nella scuola, nella sanità, nell’università, nelle infrastrutture, in tutto ciò che è Stato sociale. E non possiamo farlo perché ci sono piombate addosso le catene del pareggio di bilancio, violentemente ficcato in Costituzione da un governo imposto dall’Unione Europea nel 2011 (e i cui ministri, in primis Elsa Fornero, vengono ancora invitati a pontificare in prima serata).
L’architrave dialettico a sostegno di questo meccanismo è il politicamente corretto, violentissimo nei confronti di tutti coloro i quali provino anche solo per un istante ad alzare la testa o a contestare la dottrina della fede europeista e atlantista. Chi sono i veri complottisti è la domanda delle domande: coloro i quali, dinanzi alle macerie dell’Italia e di gran parte dell’Europa, pongono dei dubbi, o coloro che ossessivamente ci impongono di credere ciecamente in scelte che ci stanno rapidamente portando alla rovina?
È questa la grave colpa del governo di Giorgia Meloni: non quella di essere fascista (equivoco imbecille dal quale volutamente Giorgia non si smarca, al fine di distogliere l’attenzione del dibattito pubblico), bensì quella di mancare alla promessa a più riprese e sotto varie forme fatta in campagna elettorale: quella di spezzare il giogo che oggi ci impedisce di essere felici.
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