Da “emergenza peste suina” – con tanto di provvedimenti come “lockdown dei boschi”, piano di abbattimento massivo dei cinghiali, recinzioni e obbligo di abbattimento di tutti i suini allevati nell’area rossa tratteggiata per limitare il contagio – ad apparente abbandono delle strategie di contenimento. Questo il bilancio, dal punto di vista degli allevatori, di 15 mesi di contrasto alla diffusione della Peste suina africana (PSA). Il virus, che colpisce suini e cinghiali, era stato annunciato nel gennaio del 2022 come molto contagioso e estremamente letale. Per questo era stata annunciata la decisione di delimitare una vasta area rossa su un territorio di confine tra Liguria, Lombardia e Piemonte, per poi procedere all’abbattimento di massa dei cinghiali. Mai come oggi, invece, a Genova gli ungulati prosperano a centinaia lungo il letto del Bisagno e nelle zone collinari immediatamente confinanti con il centro città, non disdegnando saltuariamente giri in centro storico o in altre zone altamente trafficate. Non ultimo il caso di un residente del quartiere di Albaro, travolto da un cinghiale mentre si recava nel suo garage. Venti punti di sutura, quasi un mese di prognosi, diverse escoriazioni e la consapevolezza che non è rimasto dissanguato per una questione di pochi centimetri: “Il problema non sono i cinghiali, che si comportano da animali selvatici quali sono – spiega il pensionato ancora in convalescenza – ma la difficoltà di convivenza nei centri urbani”.
La recinzione è stata parzialmente montata, ma non si capisce quale possa essere la sua utilità visto che casi di cinghiali positivi alla peste suina sono stati trovati da una parte e dall’altra della divisione, che per altro i cinghiali sfondano ripetutamente come testimoniano foto e video dei residenti allibiti. Anche il piano di abbattimenti che avrebbe dovuto contenere il contagio sembra procedere quanto meno a rallentatore.
Si era detto che il contenimento di questo virus sarebbe stato fondamentale per evitare il contagio di qualche maiale da allevamento, che avrebbe comportato per le normative europee un blocco immediato dell’esportazione di carni. Quello che però potrebbe sembrare, proprio nei giorni in cui è uscita una sostanziale proroga, attenuata, delle limitazioni fissate lo scorso anno è che si cerchino meno possibile i casi da testare, quasi come se si attendesse che il virus sparisca da sé, nell’arco di 4-5 anni.
“È una situazione surreale – spiega a ilFattoQuotidiano.it Stefano Chellini, allevatore biologico e referente Aiab per la Liguria – ci hanno costretto ad abbattere tutti i suini senza alcun indennizzo decoroso, non riescono neanche a dirci se e quando potremmo riaprire l’attività, e mentre decine di aziende di allevatori, soprattutto quelle virtuose che si basano sullo stato brado e su filiere di qualità, rischiano di fallire, ci sentiamo presi in giro”.
Quello che chiedono gli allevatori è che venga dichiarato chiaramente se la struttura commissariale abbia deciso di arrendersi, e lasciare che la peste suina faccia il suo corso (e in tal caso chiedono di poter ricominciare ad allevare i suini) oppure se intendano prendere dei provvedimenti “un po’ più concreti del nulla assoluto al quale abbiamo assistito fino adesso”. Tra gli ostacoli incontrati nei mesi scorsi ci sarebbe stato il rifiuto dei cacciatori a collaborare a battute di gruppo al termine delle quali avrebbero dovuto consegnare i capi abbattuti per analisi e incenerimento, la difficoltà a limitare davvero la fruizione da parte degli escursionisti dei sentieri e dei boschi, il tentativo di recintare un territorio complesso come quello dei boschi di un’area molto estesa: “Nessuno pensa che controllare il contagio sia un’impresa facile – chiarisce Chellini – ma come allevatori chiediamo chiarezza e trasparenza. O la situazione è grave, e allora bisogna intervenire anche per garantirci una riconversione degli allevamenti (visto che i soldi europei dedicati ci sono, ma non vengono spesi), o l’allerta era sproporzionata e quindi chiediamo di poter ricominciare con l’allevamento di suini, che per altro in Liguria è prevalentemente portato avanti da realtà piccole o medio piccole, biologiche e attente alla filiera di qualità, che proprio per questi motivi rischiano di fallire, a tutto vantaggio degli allevamenti industriali che restano fuori dai provvedimenti restrittivi”.