Dopo la caduta di Al Bashir a seguito dell’insurrezione del 2019, un periodo di relativa stabilità sotto il governo ‘pro tempore’ del presidente Abdel-Fattah al-Burhan aveva reso il Sudan un paese di accoglienza per i profughi dei conflitti armati che da anni riguardano gli stati confinanti.
A pochi giorni dalle elezioni convocate anche per assecondare le richieste di una popolazione che continua a chiedere un processo di democratizzazione (e lamenta le pessime condizioni economiche della maggioranza degli abitanti), il vicepresidente Mohamed Hamdan Dagalo, che mantiene rapporti di forza su alcune parti del territorio, si è rivoltato contro l’esercito regolare del presidente. “Un golpe nel golpe con grossi interessi esterni – commenta il cooperante Stefano Rebora di Music for Peace – dove in mezzo finiscono come sempre i civili”.
Quella che si sta combattendo in Sudan è una guerra sporca dalle dinamiche confuse, dove gli stessi paramilitari delle FSR che il presidente al-Burhan, fino a ieri, usava per reprimere le manifestazioni di piazza, ora si scontrano con i militari “regolari” facendo largo uso di armi pesanti che colpiscono nel centro di Karthum, senza una vera e propria linea del fronte che consenta in qualche modo di tenersi lontano dagli scontri a fuoco. Da anni Stefano Rebora e Valentina Gallo, con l’ong genovese Music for Peace, portano generi di prima necessità in aree di crisi: “Dalla gente per la gente, raccogliamo il materiale, lo carichiamo sui container e lo distribuiamo in cooperazione con associazioni locali”. Così ogni anno generi alimentari, medicinali e prodotti essenziali partono dal capoluogo ligure: “Quest’anno in Sudan stiamo portando avanti un progetto più strutturato, seguendo in particolare delle famiglie con distribuzioni di pacchi e un percorso di accompagnamento verso l’autonomia – spiegano i cooperanti – mai avremmo pensato che un conflitto che sembrava contenuto potesse esplodere in così poco tempo e con questa intensità”.
Stefano Rebora era a Karthum dall’inizio dell’anno e Valentina l’aveva raggiunto per il periodo delle vacanze pasquali insieme al figlio di 8 anni. Dopo una settimana di ansia e una serie di vicende rocambolesche, sono riusciti a tornare in Italia con gli altri 150 connazionali: “Ma andarcene al livello emotivo è stata dura, perché abbiamo lasciato lì persone che ci eravamo impegnati a prendere in carico e il nostro staff locale. Quando abbiamo comunicato la nostra partenza i nostri colleghi sudanesi erano felici per noi e ci hanno aiutato in tutti i modi, perché il popolo sudanese in questi anni ci ha sempre dimostrato di essere generoso e accogliente – continua Valentina, che a Karthum oltre al figlio e al marito era con il responsabile di missione Pietro Biondi e la responsabile della comunicazione Chiara Gardella – Ora monitoriamo l’evoluzione del conflitto il più possibile, anche con la nostra rete di associazioni locali, e contiamo di tornare il prima possibile, magari già a giugno, perché in questo momento la popolazione ha bisogno di sostegno e beni di prima necessità ancora più di quanto non ne avesse prima”. Gli unici italiani che, a oggi, restano in Sudan sono diversi medici di Emergency e sacerdoti, mentre al al confine tra Ciad e Sudan, nella regione sudanese del Darfur, l’UNHCR ha stimato la presenza di 20.000 persone (soprattutto donne e bambini) in fuga dal conflitto.
Negli scorsi anni, per contrastare i flussi migratori, che vedono nel Sudan uno dei principali snodi di transito, i governi italiani non si sono fatti problemi prima a collaborare con il regime di al Bashir (arrivando a stringere accordi per rimpatri collettivi di richiedenti asilo fuori da qualsiasi regolamento di diritto internazionale) e poi formando i janjaweed che oggi combattono al fianco del golpista Dagalo, esplicitamente contrario al processo di “democratizzazione” richiesto dalla popolazione che protesta da cinque anni.