Ho già detto in un’intervista su questo giornale cosa penso della ormai famigerata campagna “Open to Meraviglia”, commissionata dal ministero del Turismo alla società Armando Testa (a chi ancora crede sia una persona – lo era, è defunto nel 1992 – suggerisco Wikipedia). In sintesi, più che criticare – spesso in modo incompetente – la campagna, che ben rispecchia un’idea bipartisan di turismo che in Italia risale come minimo al “Plis, visit aur cauntri” di Rutelli e al “Magic Italy” di Berlusconi, si deve discutere la politica di promozione turistica che ancora oggi si persegue: massificata, omologata e non più sostenibile per i soliti sovraffollati e sfruttatissimi luoghi.

Aggiungo qui qualcosa sulla risposta che l’azienda Armando Testa ha dato oggi, acquistando una pagina sul Corriere della sera, perché anche la risposta, ovviamente, sta scatenando polemiche ovunque. Premetto che, data la situazione, ritengo sia la migliore risposta che l’azienda potesse dare. E tuttavia.

Cosa non mi piace. Sfrutta troppo il “nel bene o nel male, purché se ne parli”, un detto che si fa risalire a Oscar Wilde e che, quando si parla e straparla di comunicazione, è ormai diventato un luogo comune (ne scrivevo già nel 2011). Lo sanno tutti che il “purché se ne parli” spesso funziona, sì, ma sanno pure tutti che a volte non funziona per niente: se le critiche sono tante, troppe e troppo dure, il danno alla reputazione di chi viene criticato può essere pesante. Perciò anch’io, nel leggere la risposta, ho provato quel certo fastidio che chiunque – chi più, chi meno – prova di fronte al tono un po’ furbetto di tutto il testo e a quell’implicito “ci sei cascato” che sta già dentro al “grazie” del titolo e lampeggia fino alla fine, fra tutte le righe. In più, da professionista della comunicazione, ho provato il fastidio aggiuntivo – e la delusione – di chi vede professionisti del settore sfruttare – ancora? – una leva vecchia, abusata e tanto meno efficace quanto più abusata.

Cosa mi piace. Hanno precisato la faccenda dei costi: nove milioni. Su quei nove milioni si sono infatti scatenate le polemiche peggiori, sempre all’insegna del facile scandalo (“Tutti quei soldi pubblici!”) e dell’ignoranza di cosa significa realizzare una campagna di comunicazione. Nove milioni non sono certo destinati all’azienda, ma includono una pianificazione media che va, a quanto hanno dichiarato, dall’Europa ai Paesi del Golfo, dagli Stati Uniti alla Cina, dal Sud America all’Australia. In questo senso sono anche pochi. E in ogni caso, non si può mai dare un’opinione sensata sui costi di nessuna campagna, senza conoscerne i dettagli.

Potevano non rispondere? Assolutamente no. Si chiama gestione della crisi – o crisis management, per chi preferisce l’inglese. Che ci fosse un danno di reputazione al brand Armando Testa era chiaro anche a loro, altrimenti non avrebbero risposto. Che poi ciò che hanno scritto vada preso per oro colato, no. L’esecuzione resta mediocre. Inutile nascondersi dietro al fatto che il video fosse una presentazione provvisoria: era chiaro non fosse uno spot (come chi non è del mestiere ha creduto), ma di videopresentazioni del genere, destinate a circolare solo in rete, ne abbiamo viste molte. Sarebbe stato più cauto marcare la provvisorietà con una scritta sovraimpressa, ad esempio. E le immagini? Una maggiore cautela nel selezionare nei vari stock materiale meno facilmente individuable sarebbe stata opportuna.

Detto questo, la risposta nel suo complesso conferma che alla Armando Testa sanno fare il loro mestiere. E hanno gestito la crisi al meglio. Ben diverso è – lo ripeto, vedi sopra – ciò che penso della politica del ministero. Ma questa è un’altra storia.

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