Mafie

Trattativa Stato-mafia, il giorno della sentenza della Cassazione. Le richieste dei pg: Appello bis per i carabinieri, assoluzione per Dell’Utri

È il giorno della verità. La corte di Cassazione emetterà oggi la sentenza sulla cosidetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. L’ultimo atto, o forse il penultimo in caso di annullamento con rinvio, di una vicenda cominciata 15 anni fa, quando la procura di Palermo cominciò una lunga e complicata indagine, che il 14 aprile scorso è approdata davanti ai giudici della Suprema corte. Si tratta di uno dei fascicolo più complessi mai esaminati dalla sesta sezione penale, che infatti ha deciso di chiedere un differimento dell’udienza di quasi due settimane. Adesso dovrà esprimersi sulla base delle richieste della procura generale, che ha chiesto un nuovo processo d’appello per i tre carabinieri del RosMario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni – e per i due mafiosi condannati in secondo grado, cioè Leoluca Bagarella e Antonino Cinà. Per Marcello Dell’Utri è stata chiesta la conferma dell’assoluzione.

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La storia del processo – La vicenda riguarda la cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, in cui gli allora vertici del Ros dei carabinieri sono imputati insieme ai vertici mafiosi per violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato. L’accusa è di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni la minaccia di Cosa nostra: un alleggerimento delle condizioni carcerarie in cambio dello stop alle stragi che nel 1992 e 1993 insanguinarono l’Italia. All’esame della sesta sezione penale c’è la sentenza di 2.791 pagine emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 ha ribaltato la decisione di primo grado assolvendo “per non aver commesso il fatto” l’ex senatore Dell’Utri e “perché il fatto non costituisce reato” gli ex generali del Ros dei Carabinieri Mori e Subranni e l’allora capitano De Donno. Rispetto al primo grado erano state confermate solo le condanne al boss corleonese Leoluca Bagarella (ridotta da 28 a 27 anni) e quella al medico Antonino Cinà: il medico di Totò Riina era stato condannato a 12 anni perché accusato di aver fatto da “postino” al papello, cioè la lista delle richieste di Cosa nostra allo Stato per far cessare le stragi. La sentenza è stata impugnata dalla Procura generale di Palermo, che ne ha chiesto l’annullamento: per la procuratrice generale Lia Sava e i sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera “la Corte di Assise di appello ha contraddittoriamente ed illogicamente assolto Subranni, Mori e De Donno”. Per quanto riguarda Dell’Utri, invece, “non è dato comprendere perché si sia tenuto per sé il messaggio ricattatorio dei vertici mafiosi non riportandolo al destinatario finale, che era colui per il quale si era interessato per la tessitura di un accordo elettorale”.

Le richieste della procura generale – Una posizione condivisa solo in minima parte dall’avvocato generale Pasquale Fimiani e dai sostituti pg Pietro Molino e Tomaso Epidendio, che hanno accolto invece molte delle argomentazioni contenute nel ricorso di Mori e De Donno: i due militari chiedevano un’assoluzione con formula più ampia (“perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non lo ha commesso”) e non più soltanto “perché il fatto non costituisce reato“. I tre pm hanno dunque chiesto “l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla minaccia nei confronti dei governi Amato e Ciampi” nei confronti dei due generali e “con effetto estensivo anche al non ricorrente Antonio Subranni“. Chiesta invece la conferma dell’assoluzione per Dell’Utri, storico braccio destro di Silvio Berlusconi. Secondo la Procura generale, i fatti storici non sono dimostrati oltre ogni ragionevole dubbio: “A questa esigenza di certezza processuale, la sentenza fornisce una risposta non conforme al diritto e difettosa sul piano motivazionale”, perché “descrive la trattativa negli anni ma non fa una precisa ricostruzione della minaccia e di come sia stata rivolta al governo, e lo fa solo in modo congetturale”.

“Cosa venne chiesto al ministro Conso?” – In particolare, secondo i sostituti pg, “manca di indicare il preciso contenuto delle richieste” rivolte da Cosa nostra a Giovanni Conso, ministro di Grazia e giustizia nei governi Amato e Ciampi: solo conoscendo quel contenuto, argomentano i magistrati, si sarebbero potute fare “valutazioni di merito essenziali per sostenere logicamente le conclusioni sull’integrazione del delitto”, valutazioni “che non risultano effettuate nella sentenza impugnata”. Secondo la ricostruzione della procura di Palermo, nel novembre del 1993 l’ex guardasigilli Conso decise di far decadere oltre trecento provvedimenti di 41bis per altrettanti detenuti mafiosi proprio in relazione alla minaccia proveniente da Cosa nostra con le stragi di Firenze, Roma e Milano, tra il maggio e il luglio dello stesso anno. “Risulta decisivo stabilire cosa sia stato detto precisamente al ministro e in che modo gli sia stato rappresentato – hanno sostenuto Fimiani, Molino ed Epidendio – posto che un conto è essere stato messo a conoscenza di una spaccatura all’interno di Cosa nostra che abbia determinato il ministro ad assumere autonomamente una iniziativa del genere (che non configura di per sé la minaccia qualificata nei termini che si sono ampiamente ricostruiti in memoria) nella speranza di interrompere la stagione delle stragi, altro è rappresentare al ministro stesso che Cosa nostra si era dimostrata disponibile ad interrompere l’azione stragista e di aggressione ad esponenti di spicco della politica e della magistratura italiana in caso di segnali di distensione quali appunto la mancata proroga di un cospicuo numero di provvedimenti ex articolo 41-bis adottati nei confronti di appartenenti alla mafia”.

Chi sono i giudici – A emettere la sentenza sarà la sesta sezione penale, presieduta da Giorgio Fidelbo, uno dei giudici più esperti del Palazzaccio: classe 1957, in magistratura da quasi quarant’anni, ha lavorato al ministero della Giustizia dal 1993 al 2001, ricoprendo il ruolo di capo dell’Ufficio legislativo sotto i governi di centrosinistra, quelli guidati da Romano Prodi, da Massimo D’Alema e il secondo esecutivo di Giuliano Amato. Curiosamente il primo governo Amato è uno di quelli citati nel processo come parte lesa della minaccia proveniente da Cosa nostra. Fidelbo è il giudice che nell’ottobre 2019 annullò le condanne per 416-bis a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati nel processo “Mondo di mezzo, nato dalla maxi-operazione battezzata Mafia capitale proprio per la contestazione dell’associazione di stampo mafioso a molti degli imputati: il collegio presieduto da Fidelbo cassò l’impostazione accusatoria giudicata valida in Appello, riqualificando il reato in associazione per delinquere semplice. Tra gli altri magistrati che dovranno esprimersi sulla Trattativa c’è poi anche Pietro Silvestri, che della sentenza su Buzzi e Carminati fu consigliere relatore, cioè colui che materialmente scrisse il verdetto. Compito che invece sul presunto Patto Stato-mafia toccherà a Fabrizio D’Arcangelo. Gli altri giudici che compongono il collegio sono Orlando Villoni e Emilia Anna Giordano.