Manco a farlo apposta – anche se la sua uscita nelle sale italiane era stata programmata tempo fa da Universal Pictures – proprio in questi giorni in cui i media dibattono sulle sorti della plantigrade trentina JJ4, che ha purtroppo ucciso un uomo, esce al cinema Cocainorso, il (bruttissimo) film della (bellissima) Elizabeth Banks, vicenda romanzata di un orso morto di overdose dopo aver ingurgitato cocaina caduta dal cielo.
Un film vagamente demenziale come il titolo italiano (l’originale è Cocaine Bear), che trasforma in parodia con risvolti splatter (sembra un American Pie sanguinolento…) una storia vera affrontata, già una ventina d’anni fa, in serie come Power, Privilege, and Justice, FBI Files o Justified o ancora nel 2016 da libri investigativi come The Bluegrass Conspiracy: An Inside Story of Power, Greed, Drugs & Murder di Sally Denton. E che vede un Ray Liotta, cui è stato dedicato il film (il suo ultimo, quasi un cameo, prima della morte, il 26 maggio 2022) che non ha certo concluso in bellezza la propria splendida carriera avendo lavorato con registi di spessore come Martin Scorsese e Ridley Scott, solo per citarne un paio fra i tanti.
Ebbene, la storia vera: l’11 settembre 1985, Andrew C. Thornton II, funzionario di polizia venduto ai narcos della banda ‘The Company’ lancia dal portellone di un Cessna 404 con pilota automatico 15 milioni di dollari di cocaina in panetti proveniente – guarda un po’ – dalla Colombia. Lui segue a ruota la droga, ma resta imbrigliato nel paracadute e si spiaccica al suolo. L’ottantacinquenne Fred Myers, ritroverà il suo corpo nel vialetto di casa a Knoxville, nel Tennessee, mentre l’aereo terminerà il folle volo schiantandosi quasi 100 chilometri più avanti, nella Carolina del Nord. Accanto al cadavere di Thornton ci sono un giubbotto antiproiettile, 4500 dollari in contanti, alcune monete d’oro, occhiali per visione notturna e un paio di mocassini di Gucci. Oltre a un borsone contenente 35 chili di cocaina.
Solo tre mesi dopo, a dicembre, il Georgia Bureau of Investigation troverà un orso morto “per overdose da cocaina”, così almeno affermano le analisi necroscopiche (era un maschio, non una femmina come nel film della Banks). Il mammifero nero verrà poi ribattezzato Pablo Escobear e oggi, imbalsamato, è esposto in negozio di souvenir a Lexington, Kentucky, dove i turisti si scattano selfie abbracciati a lui, poveretto, che, in realtà, non ha mai ucciso nessuno, salvo alcuni salmoni, e neppure, in preda ai fumi della droga, ha mai assaltato un’ambulanza sbranando i volontari del soccorso con la colonna sonora dei Depeche Mode, a dispetto di quanto mette in scena la regista di Cocainorso, all’anagrafe Elizabeth Irene Mitchel, nota per aver partecipato, in veste di attrice (fra i tanti film non memorabili) a un paio di Spider-Man e a un paio di Hunger Games e diretto il Charlie’s Angels del 2019, versione sfigata di quello del 2003.
Sul set veri orsi non ce n’erano, c’era invece un attore (Allan Henry) specializzato in mocap, tecnica che consente di imitare movenze umane su un personaggio virtuale, un sistema applicato, per fare un esempio, al Gollum de Il Signore degli anelli.
Sono decine e decine i film con orsi protagonisti e, come nel caso degli alieni, ci sono quelli buoni e quelli cattivi. Lasciando come casi a sé i cartoni animati, i vari amici dei bambini Yoghi, Bubu, Paddington e tanti altri o quelli de La famosa invasione degli orsi in Sicilia (2019) di Lorenzo Mattotti, tratto dall’omonimo romanzo Dino Buzzati, anticipatore dell’attualissimno tema dell’abbandono del proprio territorio, sempre più ristretto, della fauna selvatica determinata a ‘scendere’ verso le città (una sorta di ragazzo della via Gluck in chiave animale).
Fra i tanti film ‘ursidi’ va ricordato l’onirico e naturalistico L’Orso (1988) di Jean-Jacques Annaud, tratto, anche questo da un romanzo, The Grizzly King (1916) di James Oliver Curwood, una fiaba ecologista che vede protagonista un cucciolo orfano di madre adottato e protetto dai fucili dei cacciatori da un potente greezly. Molti di più gli orsi cattivi, molto cattivi: cito solo Grizzly l’orso che uccide (1976) di William Girdler, dove orso sta per squalo assassino (il film uscì un anno dopo Jaws, privo, però, dei risvolti metaforici del capolavoro di Spielberg); o l’orso che lotta con Leo Di Caprio (ma il film è ambientato in un selvaggio 1823, altri tempi…altri spazi naturali…) che farà vincere a Di Caprio il suo primo Oscar per Revenant (2015) di Alejandro González Iñárritu (in realtà, qui il greezly cattivo non è: si comporta semplicemente da orso nel proprio elemento). E quando l’uomo dimentica che l’orso è un orso, ormai certo aver conquistato la sua amicizia come fece Timothy Treadwell che visse 13 anni a contatto con i greezly della riserva nazionale di Katmai in Alaska, protagonista reale del docufilm Greezly Man (2005) di Werner Herzog, alla lunga finisce male: sbranato.
Tornando all’attualità, suonano inquietanti le recenti parole di Piero Genovesi, ricercatore dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) che spiegano tante cose legate allo stravolgimento, il restringimento, la modificazione dell’habitat naturale degli animali selvatici da parte dell’uomo, ma anche alla loro lenta marcia verso le città: “630 milioni di tonnellate è il peso dei mammiferi allevati, come maiali, mucche, cavalli e altri presenti sulla Terra, ovvero 30 volte più di quello di tutti i mammiferi del pianeta e 20 volte più di quello dei mammiferi marini come balene e delfini. I soli suini allevati dall’uomo pesano circa il doppio di tutti i mammiferi selvatici presenti sulla Terra. I cani domestici dell’intero mondo pesano come tutti gli altri mammiferi selvatici che vivono sul pianeta. Tutelare la fauna non vuol dire solo proteggerla dall’estinzione, ma anche riportarla alle2 condizioni in cui gli animali vivevano prima che che l’uomo le modificasse così radicalmente.
Meno spazio, meno cibo ed ecco la cavalcata degli animali selvatici in città. Ci sarebbe da augurarsi – ovviamente è un’utopistica provocazione, ci sono cani che fanno splendide cose e lupi che, dopo secolari odissee di persecuzione, vivono ancora liberi – che i 900 milioni (ma solo quelli registrati) di cani domestici stimati nel 2022 – tornino ad essere lupi come furono sin dal Pleistocene medio, circa 500.000-300.000 anni fa, quando apparirono sulla Terra fieri e liberi, prima che l’uomo via via li addomesticasse ed assoggettasse a sé.